Italia al bivio. Declino o risveglio? Ripartiamo dalla nostra ricchezza culturale
La pubblicazione del 58º rapporto Censis ha rappresentato l’occasione per una discussione sullo stato del Paese. Il rapporto ha restituito l’immagine di un paese fermo, confuso, prigioniero di ventate emotive, privo di una direzione di sviluppo condivisa e condivisibile. Con sempre meno bambini – molti dei quali poveri! – e con tanti giovani che se ne vanno. Un quadro ben poco rassicurante.
La ragione di questa situazione è chiara: nel momento in cui stanno cambiando le condizioni della crescita sulla scala internazionale, l’Italia si trova a dover pagare il conto delle mancate riforme strutturali e quindi dei fallimenti degli ultimi trent’anni. Quando nel passaggio dalla prima alla cosiddetta “seconda Repubblica”, il nostro Paese si è trovato imprigionato tra un carico debitorio che ne ha condizionato per decenni ogni vera politica, e l’incapacità di leggere e interpretare la nuova e impegnativa fase della globalizzazione.
Proviamo a rimettere in fila alcuni processi.
Con l’89 si spegne anche in Italia la spinta, seppur conflittuale, che veniva dalla classe operaia, progressivamente dissoltasi in un ceto popolare indistinto e sempre più sganciato dai tradizionali ancoraggi culturali. Un indebolimento che ha colpito anche il cattolicesimo sociale, sempre meno capace di costituire il baricentro culturale del Paese. L’ipotesi lanciata da Bettino Craxi, e poi ripresa da Silvio Berlusconi, di una rivoluzione liberale che avrebbe dovuto portare il Paese nella modernità liberandolo dal suo tradizionalismo è stata ampiamente disattesa. Anche perché, probabilmente, per molti aspetti estranea alla cultura profonda del Paese. Ma deludente è anche stata la speranza riposta nell’Europa, intesa come punto di riferimento esterno che avrebbe dovuto aiutare l’Italia a dare il meglio di sé. La rigidità già delle prime regole di Maastricht ha reso nella percezione comune l’Europa una matrigna che molti italiani hanno smesso di amare e che ci ha condannato, complici le nostre incapacità, a una progressiva marginalità.
Ora però che la cornice del capitalismo globale sta cambiando, che le crisi sono sempre più profonde e frequenti, il peso dei ritardi accumulati in trent’anni emerge con sempre maggiore evidenza. Portando il Paese davanti a un bivio: da una parte, c’è la via di un deciso declino. Cosa che probabilmente sarebbe già avvenuta senza il salvagente dell’Unione Europea che, seppure, in ritardo, ha corretto la sua posizione arrivando, durante il Covid, a stanziare una cifra mirabolante (Pnrr) per provare a rilanciarci. Dall’altra, c’è il risveglio dallo stato di “sonnambulismo” (come lo ha definito il Censis). Che comporta la capacità di riconoscere la condizione in cui il Paese si trova, di smettere di nascondere i problemi reali e di cercare di interpretare il proprio ruolo nella nuova stagione che si sta delineando (i cui termini sono ancora molto incerti).
Perché questo accada occorrono almeno due condizioni. In primo luogo, che la politica parli al Paese con verità e lungimiranza, indicando una strada realistica, benché difficile, di come si possa abitare un mondo che sempre più sarà fatto di sostenibilità e digitalizzazione. La seconda condizione è che le forze vive e creative tuttora presenti nel tessuto sociale e civile si adoperino per un processo di vera riconciliazione nazionale, possibile solo con un deciso riorientamento culturale. Il cambiamento di fondo che questa stagione chiede è infatti quello di abbandonare l’idea iper-individualista che ha dominato gli ultimi trent’anni, e che ci ha di fatto trascinati verso il declino. Oggi occorre riconoscere che tutto è relazione. Ogni persona è in relazione con ciò che la circonda e con le generazioni che verranno. Ogni impresa esiste in rapporto all’ambiente e al territorio in cui opera. Ogni Stato gode di una sovranità in rapporto a sovranità più grandi. È questo il tema vero, di natura culturale – addirittura spirituale – che soggiace alla questione della sostenibilità. Come papa Francesco non si stanca di ricordarci.
Ed è questo, anche, l’unico modo di interpretare sensatamente gli irruenti processi socioeconomici annunciati per i prossimi anni. Ciò concretamente significa superare la polarizzazione che investe ancora oggi la politica. Da una parte una sinistra legata a un’idea molto spesso troppo individualistica, che è lontanissima dalla realtà delle cose. Dall’altra la reazione di chiusura delle destre. In mezzo a questa oscillazione c’è il tema, invece, di ricostruire un patto nazionale tra le generazioni, che traduca in fatti concreti ciò che questo tempo ci sta dicendo: e cioè che non c’è più nemmeno crescita economica se non ci dedichiamo a prenderci cura delle precondizioni sociali, demografiche, ambientali, culturali, educative, istituzionali che rendono possibile la stessa crescita. Si tratta di un salto di pensiero impegnativo. La cattiva notizia è che tutto ciò è difficile. La buona notizia è che nel codice culturale dell’Italia profonda tutto questo c’è già.