Giustizia. Sulle trame mafiose e camorristiche il diritto-dovere della verità
Una barba lunga, uno sguardo fiero, un monumento al diritto alla Verità. Questo era Vincenzo Agostino, padre coraggio del poliziotto Nino, ucciso il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini, nel palermitano. Barbaramente ucciso, trafitto di colpi, insieme alla moglie Ida e al figlio che lei portava in grembo. Un massacro. «Non taglierò la barba finché non avrò giustizia» andava ripetendo Vincenzo in lungo e in largo in tutte le scuole e le piazze d’Italia.
Dopo 35 anni è arrivata la condanna all’ergastolo per il boss Gaetano Scotto, la seconda dopo quella di Nino Madonia, già giudicato con rito abbreviato (anche in Appello). Vincenzo Agostino è morto pochi mesi fa, quella barba da quel caldo giorno di agosto non l’ha potuta tagliare. Una colpa, enorme, per uno Stato che non è arrivato in tempo a dare giustizia a due genitori (la madre, Augusta Schiera, non vide neanche iniziare il processo). Eppure un successo di testardaggine per chi non si è arreso, per chi ha insistito nella ricerca di verità nell’omicidio di un poliziotto che vede tanta mafia, ma soprattutto tante indicibili collusioni e vicende oscure, come quella di “faccia di mostro” e del fallito attentato all’Addaura al giudice Giovanni Falcone. Un ricercatore indomito è stato il legale della famiglia Agostino, Fabio Repici: «Nino e Ida andarono consapevolmente incontro alla morte, perché avevano capito di essere diventati preda di quella “profanissima trinità” della quale Nino Madonia e Gaetano Scotto erano espressione diretta: la stabile alleanza, risalente all’inizio degli anni Settanta, tra cosa nostra, eversione neofascista ed esponenti della polizia e del Sisde». Quel monumento alla Verità, quella barba mai tagliata, gridano ancora, oltre le condanne.
La nostra Costituzione, probabilmente la più bella al mondo, manca di un diritto fondamentale: la Verità, appunto. Oggi – ci ricorda don Luigi Ciotti – oltre l’80% delle vittime di mafia non ha giustizia e verità, basti ricordare questo numero. Quella verità che da noi sembra sempre stare altrove, chiusa in qualche soffitta buia, nascosta tra mille granelli di polvere, bauli, carte accatastate e parole arrugginite confuse una sull’altra in un secolare, perenne, e dilagante disordine. L’ho scritto in un libro, Traditori, ne faccio una battaglia da anni. Una battaglia che non è di qualcuno ma deve essere di tutti. Un diritto di tutti, appunto.
Quante volte ci è capitato di ascoltare le parole dei familiari delle vittime (di mafia o terrorismo) provando una immediata partecipazione al loro dolore. Compassione, rabbia, empatia. Sentimenti antichi e nobilissimi. Ma chi soffre per la perdita di un proprio caro non ha bisogno di lacrime condivise, o della nostra pietà. Chiede altro. Chiede giustizia e chiede verità. E lo chiede per tutti, non (solo) per loro.
D’altronde siamo la nazione – dell’Occidente almeno – in cui ci sono state più stragi, più omicidi, ancora irrisolti. La storia del nostro Paese si snoda lungo un percorso ininterrotto di capitoli drammatici in cui il caos è stato da sempre l’arma vincente, se non la prima, di chi ha lottato per conquistare il potere. La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata per fornire ai cittadini un’interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di determinati interessi, alterando così i processi cognitivi della scelta consapevole.
Basti pensare che, ancora oggi, c’è il segreto di Stato sulla prima strage della nostra Repubblica: Portella della Ginestra, primo maggio 1947, 11 morti e poi infiniti depistaggi, anche sulla morte del responsabile (Salvatore Giuliano) e totale mancanza di verità sui mandanti. Ed è così che episodi e stragi spesso collegati vengono, volutamente, visti ed esaminati come episodi singoli e disconnessi. Il periodo delle bombe terroristiche, da Milano a Bologna, poi quelle mafiose, da Capaci a via D’Amelio, e ancora quelle in “continente”. Tutti episodi visti troppo parzialmente, e comunque senza piena verità, senza completa giustizia. Verità nascoste o non completamente svelate.
Si tratta di un fondamentale diritto della persona umana, quello a una conoscenza, il più possibile piena, della storia e della politica, dei meccanismi distorsivi della realtà e dei mezzi per cercare di restarne immuni. Ce lo ha ricordato più volte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «La verità resta un diritto, oltre che un dovere per le istituzioni. La ricerca della verità, dunque, deve continuare laddove persistono lacune e punti oscuri».
Sarebbe un bene che la politica tutta ne inserisse, nella Carta fondativa della nostra democrazia, un recepimento chiaro. La ricerca della verità appartiene a tutti, non solo alle vittime. Ed è un diritto-dovere.