Opinioni

Giustizia. Sulle trame mafiose e camorristiche il diritto-dovere della verità

Paolo Borrometi venerdì 11 ottobre 2024

Una barba lunga, uno sguardo fiero, un monumento al diritto alla Verità. Questo era Vincenzo Agostino, padre coraggio del poliziotto Nino, ucciso il 5 agosto del 1989 a Villagrazia di Carini, nel palermitano. Barbaramente ucciso, trafitto di colpi, insieme alla moglie Ida e al figlio che lei portava in grembo. Un massacro. «Non taglierò la barba finché non avrò giustizia» andava ripetendo Vincenzo in lungo e in largo in tutte le scuole e le piazze d’Italia.

Dopo 35 anni è arrivata la condanna all’ergastolo per il boss Gaetano Scotto, la seconda dopo quella di Nino Madonia, già giudicato con rito abbreviato (anche in Appello). Vincenzo Agostino è morto pochi mesi fa, quella barba da quel caldo giorno di agosto non l’ha potuta tagliare. Una colpa, enorme, per uno Stato che non è arrivato in tempo a dare giustizia a due genitori (la madre, Augusta Schiera, non vide neanche iniziare il processo). Eppure un successo di testardaggine per chi non si è arreso, per chi ha insistito nella ricerca di verità nell’omicidio di un poliziotto che vede tanta mafia, ma soprattutto tante indicibili collusioni e vicende oscure, come quella di “faccia di mostro” e del fallito attentato all’Addaura al giudice Giovanni Falcone. Un ricercatore indomito è stato il legale della famiglia Agostino, Fabio Repici: «Nino e Ida andarono consapevolmente incontro alla morte, perché avevano capito di essere diventati preda di quella “profanissima trinità” della quale Nino Madonia e Gaetano Scotto erano espressione diretta: la stabile alleanza, risalente all’inizio degli anni Settanta, tra cosa nostra, eversione neofascista ed esponenti della polizia e del Sisde». Quel monumento alla Verità, quella barba mai tagliata, gridano ancora, oltre le condanne.

La nostra Costituzione, probabilmente la più bella al mondo, manca di un diritto fondamentale: la Verità, appunto. Oggi – ci ricorda don Luigi Ciotti – oltre l’80% delle vittime di mafia non ha giustizia e verità, basti ricordare questo numero. Quella verità che da noi sembra sempre stare altrove, chiusa in qualche soffitta buia, nascosta tra mille granelli di polvere, bauli, carte accatastate e parole arrugginite confuse una sull’altra in un secolare, perenne, e dilagante disordine. L’ho scritto in un libro, Traditori, ne faccio una battaglia da anni. Una battaglia che non è di qualcuno ma deve essere di tutti. Un diritto di tutti, appunto.

Quante volte ci è capitato di ascoltare le parole dei familiari delle vittime (di mafia o terrorismo) provando una immediata partecipazione al loro dolore. Compassione, rabbia, empatia. Sentimenti antichi e nobilissimi. Ma chi soffre per la perdita di un proprio caro non ha bisogno di lacrime condivise, o della nostra pietà. Chiede altro. Chiede giustizia e chiede verità. E lo chiede per tutti, non (solo) per loro.

D’altronde siamo la nazione – dell’Occidente almeno – in cui ci sono state più stragi, più omicidi, ancora irrisolti. La storia del nostro Paese si snoda lungo un percorso ininterrotto di capitoli drammatici in cui il caos è stato da sempre l’arma vincente, se non la prima, di chi ha lottato per conquistare il potere. La ricostruzione del passato è stata spesso manipolata per fornire ai cittadini un’interpretazione dei fatti che è funzionale alla tutela di determinati interessi, alterando così i processi cognitivi della scelta consapevole.

Basti pensare che, ancora oggi, c’è il segreto di Stato sulla prima strage della nostra Repubblica: Portella della Ginestra, primo maggio 1947, 11 morti e poi infiniti depistaggi, anche sulla morte del responsabile (Salvatore Giuliano) e totale mancanza di verità sui mandanti. Ed è così che episodi e stragi spesso collegati vengono, volutamente, visti ed esaminati come episodi singoli e disconnessi. Il periodo delle bombe terroristiche, da Milano a Bologna, poi quelle mafiose, da Capaci a via D’Amelio, e ancora quelle in “continente”. Tutti episodi visti troppo parzialmente, e comunque senza piena verità, senza completa giustizia. Verità nascoste o non completamente svelate.

Si tratta di un fondamentale diritto della persona umana, quello a una conoscenza, il più possibile piena, della storia e della politica, dei meccanismi distorsivi della realtà e dei mezzi per cercare di restarne immuni. Ce lo ha ricordato più volte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «La verità resta un diritto, oltre che un dovere per le istituzioni. La ricerca della verità, dunque, deve continuare laddove persistono lacune e punti oscuri».

Sarebbe un bene che la politica tutta ne inserisse, nella Carta fondativa della nostra democrazia, un recepimento chiaro. La ricerca della verità appartiene a tutti, non solo alle vittime. Ed è un diritto-dovere.