Dalla parte della vita vera. Quei 66.638 ragazzi e aspiranti medici
Uno su cinque ce la fa. Ma oggi non è tanto il dato sulla ben nota selettività del test di accesso alle facoltà di Medicina a interrogarci quanto quel che la corsa al camice bianco – in capo a un iter di studi lungo e impegnativo come pochissimi altri – prova a dirci in questo settembre di Covid ancora incombente. I 66.638 giovani iscritti alla prova nazionale di ieri per contendersi i 13.072 posti messi a disposizione dal Ministero nelle Università statali – 1.500 in più rispetto all’anno scorso – sono consapevoli della salita che li attende per tagliare i sudati traguardi dapprima del debutto da matricole, poi della laurea e infine della specializzazione.
Sempre che bastino. Un percorso a ostacoli, per il quale si è mostrato disponibile in qualche caso il 50% di candidati in aggiunta ai numeri dell’ultimo esame di ammissione. Ma stavolta sembra esserci di più, molto di più. Gli aspiranti professionisti della salute hanno già vinto una prova con se stessi per il solo fatto di aver deciso di provarci malgrado quel che è successo, anzi, forse proprio per quello.
Hanno visto per mesi insieme a tutti noi cosa può voler dire oggi essere medici, assistendo al prodigarsi nelle corsie e al letto di malati e moribondi dei dottori chiamati in causa per nome e anima assai più che con le loro sole competenze tecniche, quanto spesso sproporzionate all’immane emergenza. E dentro il dilagare del virus, anche più angosciante, questi figli del nuovo millennio hanno intuito – e noi con loro – la domanda talora disperata di compagnia e di senso che sale dal letto di malati impegnati nel corpo a corpo con una malattia che la scienza ancora stenta a capire e circoscrivere. Cosa pensano di poter dire, domani, a quegli occhi sgranati dalla paura di non farcela, di non poter vedere i propri cari, di sentirsi troppo fragili per la battaglia? È apparsa improvvisa – lo sappiamo – l’impotenza della medicina rispetto alla richiesta angosciosa di guarire.
Lo smarrimento ha colto anche chi al pronto soccorso e in terapia intensiva si è adoperato senza risparmio per tamponare gli effetti di un virus ribelle a terapie e protocolli collaudati. Fatica e frustrazione sono lievitate di pari passo col crescere tra la gente di una fiducia sconfinata per i medici che abbiamo sentito così vicini a noi nell’umanissima dismisura della sfida, ma decisivi nell’affrontarla a nostro nome.
Ecco, i 66mila ragazzi che ieri mattina hanno cercato di mettere le crocette al posto giusto sapevano di giocarsi un posto accanto a gente così: ammirata, certo, e però assai meno invidiata per la responsabilità che incombeva sulle loro spalle, figure che possono attrarre per l’aura di eroismo che gli è cresciuta attorno, ma anche respingere perché non risparmiati dalla malattia e dal suo stesso esito fatale, missionari sulla frontiera tra vita e morte mai tanto evidentemente pericolosa.
L’impatto del Covid ha rivelato senza finzioni la carne della professione medica: prendersi a cuore la sofferenza e il destino delle persone, farsene carico nell’ora più buia fino a supplire a qualunque inadeguatezza della scienza, disposti anche ad attraversare il deserto della solitudine imposta dall’isolamento.
Che proprio oggi in questo nostro Paese immerso nell’inquietudine sul proprio immediato futuro ci siano migliaia di giovani che premono per indossare il camice – e all’occorrenza lo scafandro anti-contagio – offre un’immagine delle nuove generazioni diametralmente opposta al racconto a tinte fosche tracimato dalle discoteche estive, dove i ragazzi (e non solo loro) si sono accalcati apparentemente per dimenticare tutto, cominciando dalle più elementari cautele, e non come ieri mattina per disputarsi un futuro che promette fatiche e rischi ampiamente documentati dalla vita vera.
Nel patente contrasto c’è tutta l’ambivalenza della condizione giovanile oggi, sospesa tra slanci e accomodamenti, speculare in questo al mondo adulto (che la cultura del disimpegno ha plasmato a propria immagine). Ma i giovani attratti da una vita di cartelle cliniche, ospedali, turni di notte e possibili crisi, probabilmente oggi cercano ben più che una 'sistemazione', certo attraente, scorgendo forse nella professione medica il compimento della promessa che urge dentro i loro anni: quella di una vita dalla parte degli altri scopertisi vulnerabili come loro stessi sanno di essere per l’incertezza di questi anni, sentendo in questa scelta di campo il modo per ascoltare meglio la propria ricerca di una pienezza di cui il mondo gli parla senza mostrargli come raggiungerla davvero. La realtà sotto le sembianze della pandemia gli ha mostrato una strada: aspra e polverosa, ma incredibilmente vera.