Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono. Così scriveva Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002. Dieci anni dopo è bello rileggere quella parola. È bello lasciarsi illuminare nuovamente da quel messaggio permeato dal realismo della profezia, alla vigilia di una festa antica eppure sempre nuova, viva, feconda, come il Perdono di Assisi del 2 agosto prossimo. È bello perché ci ricorda che l’esperienza dell’incontro con la misericordia divina non è mai un affare privato, mai solo una questione personale fra noi e il buon Dio. No: quell’esperienza di conversione, perdono, riconciliazione, investe e intreccia piani molteplici di realtà della nostra esistenza, quello ecclesiale innanzitutto, per noi battezzati, ma anche quello storico, sociale, cosmico, chiamandoci a «fare pace» con i fratelli e il creato. Quanto ci sia bisogno di questa forza fragile che, tuttavia, fa storia e si fa storia, è la cronaca stessa a dircelo. I segni dei tempi. E le epifanie del male: come la recente, tragica strage di Oslo. Abisso di violenza, dal quale però non dobbiamo farci accecare. Altrimenti rischiamo di non vedere più le molteplici, altre forme di violenza, sopruso, ingiustizia, che segnano i rapporti fra i popoli, le nazioni, le classi, le religioni, che pretendono di farsi norma degli scenari globali – si pensi alla speculazione che ha investito le derrate alimentari negando a molti il diritto a sfamarsi, come poche settimane fa ha denunciato Benedetto XVI parlando alla Fao – ma si pensi anche alle mille derive della nostra quotidianità, alla legge del più forte che pretende di colonizzare le nostre case, le nostre strade, i luoghi del lavoro o del tempo libero... Quante volte la reciprocità perversa degli egoismi e degli odii, individuali e collettivi, si fa parola ultima, terminale, e sembra spegnere qualsiasi speranza di pace e di giustizia, di rispetto della vita e della sua dignità... Allora: c’è bisogno di una parola ulteriore. Di un gesto, di un’energia, che ci aiuti a spezzare le catene di quella reciprocità negativa. Quella parola, quel gesto, quella presenza che irrompe nel tempo e rompe la regola del male, ha un nome: misericordia. Che è il nome stesso di Dio, come sanno i cristiani. Come insegna l’ebraismo. Come afferma l’islam. È scoprendosi amati che si impara ad amare, accolti che si impara ad accogliere, perdonati che si impara a perdonare. Di questa esperienza elementare abbiamo drammaticamente bisogno. Di gesti e occasioni come il Perdono di Assisi, con la sua peculiare pedagogia. Perché ci chiamano a uscire da noi stessi, a spezzare la catena dei nostri rancori, a condividere con altri, fraternamente, il dono fragile ma trascinante della misericordia divina: regola eterna del rapporto di Dio con noi. E regola nuova del rapporto fra gli uomini. Misericordia che non è negazione della giustizia, ma suo compimento. Come Giovanni Paolo II ci ha insegnato; e torniamo alla sua parola di dieci anni fa. Perdono non è oblio, non rimuove le responsabilità del carnefice, non cancella le lacrime della vittima. Perdono è strada maestra di riconciliazione, è energia di conversione che alimenta e illumina il nostro impegno per la giustizia e la pace, è nuova intelligenza delle cose della vita sociale, economica, politica. «La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale», scriveva papa Wojtyla, e aggiungeva: «La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono». Allora: sarà bello accostarsi, con questo respiro, alla divina misericordia che il 2 agosto ci attende ad Assisi. E sarà bello tornare nella città di san Francesco il 27 ottobre prossimo, rispondendo all’invito di Benedetto XVI, nella scia del suo beato precedessore, per pregare il nome del Misericordioso perché non cessi di abitare i nostri cuori e il cuore della storia.