Non sembra estate, sembra l’inverno del nostro scontento. Nel 2009 il Ferragosto all’Aquila fu quello dell’afa insopportabile nelle tende blu, della costruzione delle
new towns,dei dubbi su come e quando l’esodo forzato dei terremotati verso la costa sarebbe stato riassorbito, prima del freddo, nell’area del capoluogo.C’era – più che speranza – non rassegnazione alla disperazione. I
tuareg dell’Aquila, gli uomini delle tende blu accampati intorno alla loro città divenuta un deserto dal 6 aprile, lottavano, erano impegnati a «reggere la botta», come si dice in Abruzzo. Il lutto era recente, nelle tendopoli aleggiavano ancora la tragedia, il ricordo dei funerali collettivi, la commozione del mondo intero che teneva gli occhi puntati verso l’Abruzzo, non avendo ancora assistito al sisma del Cile e a quello, spaventoso, di Haiti, che i mesi a venire avrebbero portato.Nel 2010 con il Ferragosto è arrivata un’altra botta, il colpo al cuore del pensare che ci siano responsabili per le morti e le distruzioni. Le vittime si sono concentrate in un gruppo di stabili condominiali o che ospitavano altre strutture, costruiti – per buona parte e anche di recente – in criminale inosservanza delle norme sismiche essenziali per i segnali che la terra, nei secoli, ha sempre mandato, qui. E la vita sottratta da qualcuno non è come la vita che se ne va. Chiama il concetto di colpa. Di uomini, non solo di terremoto, che hanno prodotto questo.La morte inferta non è come la morte sopraggiunta. Cosa vogliono, allora, gli aquilani? Un processo, delle condanne? Sì. Ma, più di questo, prima, vogliono sapere. Vogliono che si accerti: affinché alla violenza dell’immane squasso non si affianchi la violenza opposta, del quieta non movere.Bisogna smuovere, invece, scavare. E poi chiedere, a chi ha costruito male e vigilato peggio: come avete potuto? Questo vogliono, e ne hanno diritto. Anche se la risposta non ridarà loro la vita di prima. Per il resto, infatti, cosa possono sperare? Nulla di reale. Possono coltivare il sogno: riabitare la loro città, riavere la vita di prima, ritrovare le abitudini, i ritmi, le consuetudini in cui sono cresciuti e in cui si radicava la loro quotidianità. Non più preziosa di altre, ma insostituibile per loro, come lo è ogni vita in ogni parte del mondo.Che poi L’Aquila in particolare fosse anche bellissima, antica e magica, aggiunge solo pena a pena.Ecco perché sono essenziali, oggi, le iniziative di condivisione, di educazione e – per usare la parola in un senso molto più ampio del corrente – di animazione dell’Aquila, come quelle che le spuntano intorno, e le sorridono, venendo dal mondo cristiano sempre in prima linea contro l’idea della rovina, cosa di cui va dato atto con chiarezza.Nel tempo di emersione delle responsabilità umane, in concorso con la distruzione causata dalla terra, questa Assunta 2010 trova occasioni di speranza nelle iniziative dei piccoli. Piccole strutture, piccole idee, spesso dedicate ai piccoli, le quali non possono ridare all’Aquila la vita di prima ma che rappresentano persistenze di vita, come fiori che spuntino tra le macerie. Vengono da volontari, sacerdoti, uomini di buona volontà, a volte operanti in parrocchie, campi, strutture di orientamento rivolte al prossimo che in qualche caso sono anche lì da secoli a riaffermare l’
ubi consistam della città dell’Aquila e di ogni
civitas dell’uomo. Sono più iniziative d’animazione, sono terapie di rianimazione, vitali per una città così colpita. Servono a evitare che gli aquilani vengano espropriati, oltre che della realtà, anche del sogno. In attesa che questo si ritrasformi, con gli anni che ci vorranno, in realtà quotidiana. Da difendere in modo vigile. Da centellinare ogni giorno e ogni ora. E da amare più di prima, proprio per aver temuto di perderla.