Libro di Vannacci. Dal Vangelo alla Costituzione, l’odio non ha mai cittadinanza
Diritto all’odio? Non ha il copyright dell’espressione, né la pretende, il generale Vannacci, il quale è pur parso farne una sintesi in molte delle affermazioni contenute nel suo recente best seller, ciascuna delle quali, per conto suo, a dir poco opinabili. Ancora in questi nostri tempi, e nei contesti più vari, l’hanno utilizzata firme – mi si consenta il paragone – anche più illustri della sua (una tra le tante, Oriana Fallaci). È questo, d’altronde, un momento in cui l’odio traspare continuamente nelle più svariate circostanze e ad opera dei più diversi tra i protagonisti di dibattiti pubblici.
Dagli ultrà degli stadi con urla e striscioni (e l’effetto moltiplicatore, poi, della prosecuzione delle risse sui social) a politici, “opinionisti” e “titolisti”: solo un po’ più paludati ma in compenso più smaliziati dei primi nel ricacciare, per così dire, la palla nel campo altrui: “insulti carichi d’odio” sono infatti definite, molto spesso, le parole usate dagli avversari, anche quando sono assai più misurate di quelle che vengono impiegate per bollare questi stessi avversari.
Due particolari, però, caratterizzano la rivendicazione di quel “diritto” da parte dell’alto ufficiale, solleticando in modo distorto sentimenti largamente diffusi. A tenerli insieme, come comune rovescio della medaglia, il pensiero alla figura di don Giovanni Minzoni, cappellano militare nella Grande Guerra e poi vittima dell’odio fascista, del cui martirio ricorre il centenario. Il primo è legato alla posizione istituzionale ricoperta dal generale Vannacci. Non entro qui nelle questioni interpretative dei regolamenti militari, cui egli è soggetto, e sul dovere, da parte di chi sia investito di funzioni pubbliche, di adempierle «con disciplina e onore» (art. 54 della Costituzione). Né intendo interloquire nella più importante controversia, di carattere generale, sull’estensione dei limiti che tale posizione può imporre alla stessa libertà di espressione, sancita dall’art. 21 della Costituzione, nonché sulle conseguenze che può comportare il mancato rispetto di quei limiti (dal punto di vista del diritto penale vigente, ne ha trattato, su queste colonne, Agostino Giovagnoli).
E neppure ho titolo per giudicare dello stato d’animo con cui un uomo d’armi ha potuto affrontare in prima persona – e con incontestati riconoscimenti – difficili situazioni di conflitto bellico. Ciò che lascia sconcertati è che quello stato d’animo si irrigidisca nella proclamazione di un “diritto” (all’odio, appunto) che, come ha ricordato il Presidente Mattarella, è invece in totale antitesi con lo spirito che pervade l’intera Costituzione. E tanto più sconcerta che lo rivendichi chi sia stato investito di responsabilità dirigenziali e formative in un’organizzazione come quella militare, che la Costituzione stessa vuole informata «allo spirito democratico della Repubblica» (art. 52 comma 3) in un’Italia dalla quale la guerra è ammessa soltanto come mezzo estremo di difesa (art. 11) e non come teatro del quotidiano della vita sociale. L’altro particolare, a torto rimasto un po’ ai margini delle polemiche, è quello del rapporto tra il proclamato “diritto all’odio” e l’esaltazione, da parte del generale, dei duemila anni di cristianità della nostra storia.
Certo, nei secoli, anche uno “spirito di crociata” ha potuto generare persino la convinzione che il massacro degli “infedeli” fosse un viatico privilegiato per l’accesso al Paradiso: una delle non poche zone d’ombra del modo in cui le cristianità “storiche”, in Italia e fuori, hanno interpretato (e in parte smentito o tradito) la proclamata adesione al Cristianesimo. Ma non si è mai estinto, ad opera di tanti testimoni, un messaggio vivente di tutt’altra direzione. E da tempo, anche con plurime e palesi conferme ai livelli più autorevoli della Chiesa universale e della Chiesa italiana, il contenuto di pace e di amore del Vangelo è tornato in primo piano. Pure lì, qualcosa che si è messo a girare “al contrario”?