Opinioni

Il corpo e la parola. Dal ratto delle danzatrici al matrimonio

Rosanna Virgili domenica 2 luglio 2023

Giambologna: Il ratto delle Sabine (1574-1580), Firenze

«Il popolo venne a Betel, dove rimase fino alla sera davanti a Dio, alzò la voce, prorompendo in pianto, e disse: “Signore, Dio d’Israele, perché è avvenuto questo, che oggi in Israele sia venuta meno una delle sue tribù? » ( Gdc 21,1-3). Le lacrime degli Israeliti sembrano una sorta di analessi alle allarmate denunce che oggi si levano dai Paesi ricchi, specialmente dall’Europa, per la grave crisi demografica che cresce insieme alla precarietà dei legami di coppia. Come dice l’etimologia, del matrimonio – il munus della madre – la donna è protagonista e questo anche in una società patriarcale, com’era quella biblica. La parola è antonimo di patrimonio e non di patriarcato il cui opposto sarebbe, invece, matriarcato, vale a dire un potere in ogni caso unilaterale. Se nel matrimonio biblico la donna appare come figura essenziale, ella non gode, tuttavia, di titoli di proprietà né di discendenza relativi alla sua stessa famiglia; dei compiti muliebri sono padroni i mariti che pagano in concreto per “acquistare” una moglie. Quel corpo appartiene, tuttavia, non solo a suo marito ma anche al suo clan e al suo popolo. Il matrimonio, nell’Israele antico, è un dovere sociale, una necessità della collettività, un compito irrinunciabile affinché il nome di un uomo e quello del suo popolo possano sopravvivere. Ecco perché quando tutte le altre tribù d’Israele avevano giurato dinanzi a Dio che nessuna avrebbe dato una figlia alla tribù di Beniamino avevano implicitamente condannato la gens di quei loro fratelli a scomparire. L’esistenza di una famiglia, di un gruppo umano, dipende, dunque, dai nascituri e, quindi, da un patto che donne e uomini debbono stabilire tra loro. Gestiti innanzitutto a interesse dei maschi ma dipendenti dalla matrice delle femmine, nei matrimoni biblici enorme è il potere di queste ultime che la società patriarcale cerca non solo di contenere ma anche di sottomettere. Una pressione che viene recepita in un racconto di origine, nel capitolo terzo di Genesi: «Verso di lui sarà il tuo istinto ma egli ti dominerà» (v.16). Non si tratta della volontà di Dio ma delle condizioni del rapporto matrimoniale volute dagli umani: quella felice unione d’amore reciproco e fecondo («osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne», Gen 2,23) che l’uomo e la sua donna avevano vissuto nell’Eden, passeggiando con Dio, si era, purtroppo, corrotto in uno snaturante dominio dell’uno sull’altra.

Matrimoni d’interesse «Gli Israeliti si pentivano di quello che avevano fatto a Beniamino loro fratello e dicevano: “Oggi è stata soppressa una tribù d’Israele. Come faremo per procurare donne ai superstiti, dato che abbiamo giurato per il Signore di non dar loro in moglie nessuna delle nostre figlie?”» ( Gdc 21,6-7). Gli Israeliti si trovarono a essere vittime del loro sciagurato giuramento. Alla fine prevalsero, però, la sapienza e il buonsenso e si dissero l’un l’altro: «Bisogna conservare il possesso di un resto a Beniamino». Ma come fare se le loro donne non erano più disponibili? L’idea fu quella di invitare i Beniaminiti a recarsi a Silo, una città a settentrione di Betel, dicendo loro: «Andate, appostatevi nelle vigne e state attenti: quando le fanciulle di Silo usciranno per danzare in coro, uscite dalle vigne, rapite ciascuno una donna. I figli di Beniamino fecero a quel modo: si presero mogli, secondo il loro numero, fra le danzatrici; le rapirono, poi partirono e tornarono nel loro territorio, riedificarono le città, e vi stabilirono la loro dimora» ( Gdc 21,16-23). Per poter sopravvivere e crescere bisogna unirsi con donne di altre tribù. La cura della discendenza vale più della difesa della purità etnica e religiosa. E se la divisione e la guerra tra fratelli la condannavano all’estinzione, la saggezza del ricorso alle donne di Silo regalava figli e futuro alla tribù di Beniamino. Metafora magnifica in cui la simbolica danza della vita sfida e vince la paralisi della morte indotta dalle chiusure identitarie, dalle vendette senza fine, da una difesa del sangue a prezzo del sangue. Mikal, figlia di Saul, che guardò con sdegno suo marito David mentre con la casa di Israele «danzavano davanti al Signore con tutte le forze, con canti e con cetre, arpe, tamburelli, sistri e cimbali», quando l’Arca entrava in Gerusalemme, «non ebbe figli fino al giorno della sua morte» (cf. 2Sam 6,5.23). La vitale importanza della discendenza per un uomo e, quindi, del matrimonio finalizzato innanzitutto al bonum della prole si evidenzia con uno dei motivi più tipici della storia antica: quello del rapimento di donne straniere. Basti pensare al notissimo ratto delle Sabine che i romani fecero al tempo di Romolo. Ne narra Tito Livio nella sua Ab Urbe condita (I, 9-13): «Su consiglio dei senatori, Romolo inviò ambasciatori alle genti limitrofe per stipulare un trattato di alleanza col nuovo popolo e per favorire la celebrazione di matrimoni». Fu così che nel corso di una festa dove venivano fatti dei giochi per distrarre i Sabini, i romani rapirono le loro figlie. Ma mentre le rapite disposero presto il loro cuore agli sposi stranieri, non così i loro padri che, invece, mossero guerra contro Roma. Interessante è il ruolo delle donne nella soluzione di un conflitto acceso per la difesa dei confini identitari: «Con le chiome al vento e i vestiti a brandelli... non esitarono a buttarsi sotto una pioggia di proiettili e a irrompere dai lati tra le opposte fazioni per dividere i contendenti e placarne la collera. Da una parte supplicavano i mariti e dall’altra i padri. Li imploravano... di non lasciare il marchio del parricidio nelle creature che esse avrebbero messo al mondo, figli per gli uni e nipoti per gli altri». Un attestato della differenza che fa la donna in una società patriarcale: ella ha a cuore la nuova civiltà che può promuovere insieme a padri e mariti di diversa etnìa, a favore della vita dei figli. In ciò la moglie è figura più “politica” del marito, si direbbe che sia lei ad aprire un orizzonte capace di congiungere una famiglia all’altra e un popolo all’altro, a mescolare le stirpi dei mariti con quelle dei padri, a voler costruire città multietniche, ad aprire la storia dell’umanità a un respiro universale. In ciò la donna si riappropria del proprio corpo e volge a scopi ulteriori il matrimonio: non più per conservare gli spazi di un chiuso possesso, per difendere una specifica escludente “nazione”, ma per generare e custodire la vita come un processo consegnato al mondo e alla libertà. Icona plastica è la sposa del Cantico che non viene rapita dal suo sposo ma è lei che di propria iniziativa abbandona la sua vigna per vagare presso i pascoli sconosciuti dei pastori, in cerca dell’amato.

Matrimonio d’amore Forse è per l’importanza che assumeva nella vita degli Israeliti che i profeti usano come metafora prediletta dell’alleanza tra Dio e Israele proprio quella del matrimonio. Frequenti sono i testi in cui Dio parla a Israele come a una sposa, nei modi in cui un marito si rivolgerebbe a una moglie (cf. Os 2; Is 5,1-7; Ez 16). L’uso del paragone serve, però, a illuminare la differenza che c’è tra i matrimoni storici degli ebrei – nomadi o sedentari, in patria o in diaspora – e l’alleanza di Dio con Israele che diventa il fondamento della teologia biblica del matrimonio. Mosè lo fa capire riferendo le parole di Dio stesso: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – ma perché il Signore vi ama» ( Dt 7,7-8). Mentre nel matrimonio storico l’amore non era un requisito per sposarsi, in quello teologico non insistono ragioni ulteriori all’amore! L’amore, infatti, genera la vita, è atto di libertà e di grazia che trasforma l’umano vecchio – e solo – in una creatura nuova. La Lettera agli Efesini dice che il Cristo amò la Chiesa – sua sposa – con un unico scopo: «Presentarla a sé stesso tutta bella, senza macchia né ruga» ( Ef 5,27). Lo scopo è estetico, sensibile, contemplativo; il tempo è escatologico. Il sacramento del matrimonio è il dono di questo Amore divino, fonte di felicità e fecondità, per cui il marito non è più il dominatore ma il “salvatore del corpo” della moglie (cf. Ef 5,32). E viceversa. Un «mistero grande» ( Ef 5,32) non per le sue forme storiche, peraltro mutevoli e cariche di motivi contingenti, ma per la testimonianza della fede che avvia e riavvia un cammino d’amore, imprime la libertà nella carne e, abbattendo il muro della separazione, regala abbracci di eternità.