Nobel per la Pace. Da Oslo un grido e una preghiera: non dimenticate
Agli ultimi testimoni, agli ultimi che ancora possono raccontare. Il Nobel per la Pace all’associazione giapponese Nihom Hidankyo, che raccoglie i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, è un grido da Oslo, e una preghiera: non dimenticate. La memoria di chi c’era, tramandata, può essere uno dei pochi ostacoli al ritorno di quelle armi nucleari che noi nati dopo la guerra avevamo rimosso, come un fantasma del passato.
Ma ora si allargano dal fronte russo a Israele al Libano i conflitti e le minacce, e si moltiplicano gli armamenti, e il Medio Oriente sembra pronto a prender fuoco, e i Paesi Nato esaminano eserciti e arsenali e li trovano sguarniti di uomini e di sistemi di difesa. Ora che sembriamo filare distrattamente giù per il crinale di una terza guerra mondiale “vera”, il Nobel per la pace ai sopravvissuti di Hiroshima è un appello ai potenti, ma anche a chi, a occhi chiusi, vive come sempre, e proprio non riesce a credere che una guerra lo possa riguardare.
«Siamo nella Nato, mamma, non ci può succedere niente». La risposta di un figlio a tavola è quella della sua generazione: cresciuti nella pace, a diritti, vaccini, Mc Donald’s e videogiochi. Come in un acquario calmo, remota la tempesta della guerra. «Un missile balistico da Mosca a Londra ci mette 8 minuti, e quasi gli stessi a Milano», osi dire a pranzo. «Sei una catastrofista», mi blocca un altro figlio. Allora taccio. I giovani occidentali non vogliono uscire dal loro acquario. Capisco: sono nell’età in cui ci si innamora, si hanno, magari, figli, e la vita è tutta davanti. Hiroshima? Una vecchia cupa pellicola in bianco e nero. Hanno studiato, eppure, a scuola, hanno visto le città rase al suolo. Ma c’era tanta morte in quelle immagini, che forse non hanno riconosciuto la vita che c’era un istante prima. Non hanno visto “dentro” le case, e gli asili e le scuole, né il via vai allegro delle bici, quel mattino del 6 agosto 1945, alle 8. Non hanno visto le mamme che svegliavano i bambini e li mandavano a scuola, né le donne incinte, felici nell’attesa, né le ragazze prossime alle nozze. Né le cucine dove, arrivata la spesa, il gatto di casa fiutava tutto, attento e goloso. Non hanno visto quanta vita c’era – prima del nulla.
Hiroshima dieci minuti prima, era la nostra città. Solo un aereo che vagava in cielo: “Su Hiroshima sereno, visibilità dieci miglia sulla quota di tredicimila piedi”, comunicava da un volo di ricognizione un soldato americano di 27 anni all’Enola Gay, l’aereo che sganciò la bomba. Mentre nelle scuole si faceva l’appello. Quel “prima” dolce e quasi banale dovremmo guardare, per capire almeno un poco le 8.17 del 6 agosto ’45 – una gran luce e poi il buio, un buio come per sempre. Chi era nell’epicentro, in un calore di 60 milioni di gradi, divenne cenere prima di capire. Un chilometro più in là la gente bruciava, si gettava nel fiume per sfuggire al fuoco, e affogava; i figli ricordano le madri con la pelle annerita e i capelli bruciati, che inerti li lasciavano cadere dalle braccia.
A rileggere quelle ore l’istinto è di cambiare canale, come davanti a un film intollerabile. Ma non c’è alcun telecomando. Il film, anzi, vorrebbe ricominciare.
Israele in Libano ha sparato sull’Unifil, missione di peace keeping internazionale. Come dire: andatevene, voi e le vostre ubbie di pace. Intanto, Putin annuncia: «Le relazioni internazionali sono entrate in un’era di cambiamenti fondamentali: un nuovo ordine si sta formando nel mondo, e questi processi non possono essere fermati». Un “nuovo ordine mondiale”, vuole Putin. La sua “pace”? Chissà quale. Chissà a quale prezzo. Da Stoccolma, gli ultimi che c’erano cercano ancora di raccontare.