Vivere la Parola. Da Oriente a Occidente e in ogni lingua
«Verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli!» (Mt 8,11). Per alcuni secoli, le comunità cristiane del Mediterraneo furono composte da ex-pagani, favoriti nel loro approdo alla salvezza (come dice san Paolo) da una provvisoria e parziale infedeltà dell’Antico Israele. Ma una volta insediata nel mondo greco-romano, la Chiesa non ha visto nella profezia di Gesù una pericolosa eventualità da scongiurare con muri e porti chiusi. Ha invece inviato messaggeri fino ai popoli più lontani per favorire la loro entrata nel Regno. Al Nord un monaco inglese di nome Winfrid (poi Bonifacio) irraggia la vita cristiana in tutta la Germania. A Est vanno Cirillo e Metodio, come maestri di fede e di una lingua scritta, base per la memoria dei popoli.
Anche Federico Barbarossa venerava nei Magi evangelici le avanguardie di quei pagani dei quali si riconosceva erede e nel 1160 – certo poco rispettoso dello spirito di Betlemme – portava a Colonia come bottino le loro 'reliquie'. Francesco Saverio in Giappone e Matteo Ricci in Cina, come lo sforzo missionario di Ottocento e Novecento, pur tra ombre ed errori, testimoniano che mai l’orizzonte cristiano si è fermato ai confini di uno Stato, di un popolo, di una lingua. Oggi, mi domando, quanti cristiani conoscono il brano di Matteo da cui siamo partiti? Quanti avvertono la minaccia con cui quel brano si chiude «i figli del regno» – fattisi padroni abusivi della salvezza – «saranno gettati fuori»? Probabilmente molto pochi.
Di questa diffusa ignoranza siamo tutti colpevoli. Ma a questo si aggiunge altro veleno. Giorni fa, in un dibattito televisivo, un tale ha affermato – non contraddetto – che «i sovranisti sono comunitari » e «i progressisti sono elitari». A parte gli equivoci contenuti nei termini 'sovranista' e 'progressista', il messaggio è chiaro: chi predica la chiusura dei confini (etnici, culturali, religiosi) ama la sua comunità; chi chiede apertura e accoglienza (e per questo lavora), non è amico del popolo, il quale vuole tenersi stretto quello che possiede e non essere disturbato da discorsi troppo elevati.
Con ogni evidenza, due falsità di bassa lega. Viene fatta una obiezione più seria: le affermazioni del Vangelo non sono soluzioni già pronte per i problemi del momento. Vero. Ci permettono però di giudicare idee e proposte. E ci indicano sempre una 'via d’uscita', che non distrugge la giusta sovranità e indirizza il progresso. Insegnare l’italiano ai profughi è un inizio di annuncio, se è vero – come è evangelicamente vero – che, ce lo ricorda papa Francesco, «si deve partire sempre dagli ultimi».
Pretendere che sia riconosciuta una civile e controllabile residenza ai richiedenti asilo è difesa evangelica della dignità umana. Trattare con amore ogni povero è obbedire a Lui. Ricordare ai nostri piccoli greggi, a Pentecoste e non solo, che il Cristo ha «altre pecore che non sono di questo ovile» e che il suo desiderio è quello di «un solo ovile e un solo pastore » è dovere di chi serve la Parola. Che risuona senza confini, in tutte le lingue del mondo. Realizzare i progetti di Cristo è impresa difficile e lunga. Ma contraddire i suoi desideri sarebbe semplicemente rinnegare il nostro essere cristiani.