Curarsi della (ricca) diversità. Ridire no ai totalitarismi
Caro Tarquinio, «Chi è diverso viene spesso discriminato. Ma la diversità è una risorsa: arricchisce l’umanità. Oggi la società incoraggia l’omologazione scartando lo straniero e la diversità, ma essi sono la bellezza che abita e anima la vita». Così Giada, una mia alunna, in un tema. Lezione di storia sulla nascita e la diffusione dell’islam. Argomento interessante. Soprattutto per i miei studenti di origine maghrebina: Abdrahman, Malak, Melek, Youssef. Ascolto parole che gettano ponti tra cristianesimo e islamismo. Li ammiro per la convinzione e la dedizione con cui vivono ogni giorno la fede. Penso – rincresce notarlo – a molti che si dichiarano cristiani, ma sovente inautentici e ignari dei fondamenti della fede. Viaggio con i miei alunni tra segni e simboli del mondo islamico: Al-llah (“il Dio”), Ka’b (“Cubo” con la Pietra Nera), Muhammad (“il Lodato”), Medina (“città del Profeta”), ègira (“migrazione”), islam (“sottomissione”), muslim (“sottomesso”), al-Qu’ran (“lettura sacra”), Ramadan (“il mese caldo”). Incontriamo anche la parola jihad, “guerra santa”. Un ossimoro. Studenti cristiani e alunni musulmani rimangono attoniti: come può una guerra definirsi “santa”? Secondo il Corano il musulmano deve compiere ogni “sforzo” per testimoniare, con la vita e le opere, il disegno di salvezza di Allah. Riferisco che col tempo la parola jihad – “sforzo”, “impegno” – è stata strumentalizzata, distorta in “guerra” da combattere per conquistare territori, sottomettere popolazioni. Penso alle immagini, attuali, evocate dal profeta Zaccaria: «Gaza sarà in grandi dolori, / come anche Ekròn, / perché svanirà la sua fiducia;/scomparirà il re da Gaza/e Ascalòna rimarrà disabitata» (Zac 9,5). In realtà siamo chiamati ogni giorno a combattere una battaglia contro un nemico che alberga in noi: il peccato. Che devasta l’umanità. Jihad è allora conversione “militante”: una guerra “sacrosanta” – con le miti armi dell’abnegazione, del perdono – non per dominare, ma per domare il male. Che è in noi. Perché, scrive Paolo ai Romani, «io so […] che in me […] non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti, io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me» (Rm 7,18-20). La classe diventa un poliedro di storie, volti, voci. Che si donano e si rispettano. Imparano confrontandosi. Esistono “corridoi umanitari” e “lavorativi”, ma anche “educativi” che, in contesti multiculturali, connettono mondi diversi, complementari non contrapposti. Promuovendo la “convivialità delle differenze”, che è “accogliere, proteggere, promuovere, integrare” la diversità. Perché, come ci ricorda papa Francesco, «la via della pace passa per l’educazione, che è il principale investimento sul futuro e sulle giovani generazioni».
Vito Melia
Gentile Marco Tarquinio, ma noi cristiani, in merito all'annoso tema antifascismo e anticomunismo, non abbiamo proprio nulla da dire? La domanda mi è sorta a seguito di un “filotto” di articoli apparsi su “La Stampa” un paio di settimane orsono. A iniziare la bagarre è stato il ministro Gennaro Sangiuliano, il quale, con argomentazioni precise e circostanziate, ha affermato le ragioni del suo anticomunismo. Al che, nei giorni immediatamente successivi, il quotidiano torinese ha ospitato in rapida successione una sequela di interventi volti - chi più e chi meno - a una difesa dell'idea comunista vuoi del passato, vuoi del presente. Li cito rapidamente: lo storico e scrittore Giovanni De Luna, il matematico e saggista Piergiorgio Odifreddi (concentrato, in realtà, sul colonialismo) e i politici Piero Fassino e Gianni Cuperlo. Ho notato che tutte le parti, nel loro argomentare, hanno correttamente preso in considerazione gli elementi storici relativi ai fatti e ai misfatti del nazifascismo e del comunismo. Ma ho anche constatato che non hanno saputo o voluto spingersi più a fondo, mancando di cogliere quello che è – a mio avviso – il problema vero e tragico (oserei dire antropologico e metafisico) delle due maggiori ideologie del secolo scorso: cioè una distorta interpretazione dell'uomo. La quale fallace interpretazione costituisce la motivazione reale per cui entrambe fallirono storicamente. Ed è qui che sorge la mia domanda: non è forse il momento che noi cristiani troviamo il coraggio di riaffermare la nostra visione dell'uomo? «Sub specie Dei», cioè nell'interpretazione dello sguardo di Dio, come disse sant’Agostino? Fiduciosi che – al di là dei nostri limiti e delle nostre colpe – sia ancora possibile costruire una città realmente cristiana? Così come la sognarono i De Gasperi, i Mounier, gli Adenauer? Non è più che mai necessario impegnarsi per quest’opera nobile e virtuosa? Temo, infatti, che senza una ripresa, non solo dei valori, ma soprattutto della visione cristiana del reale, questa povera società sarà sempre in balìa di un ritorno di ideologie distorte.
Paolo Costa
Due intense e assai differenti lettere sulle differenze offrono lo spunto per il dialogo di oggi. Quanta verità, innanzitutto, nelle parole della giovanissima Giada, citate dal professor Melia nella sua lettera sulla scuola come laboratorio di quella «cultura dell’incontro» che è tanto cara a papa Francesco, che è moralmente giusta, spiritualmente appagante e socialmente ed economicamente conveniente. E che rappresenta il grande antidoto alla tentazione della in-differenza. Giada ha ragione, insieme ai suoi compagni di studi. E a tanti altri, nella loro scuola siciliana (Vito Melia insegna ad Alcamo) e in tutta Italia. Non è sempre facile incontrarsi, non è sempre scontato ascoltarsi e capirsi, imparare insieme e impararsi reciprocamente. A volte ci sono asprezze, incomprensioni, addirittura violenze, ma la regola della scoperta vicendevole è largamente dominante e non perché imposta per disciplina o galateo, ma perché gli esseri umani non sono portati solo allo scontro, come troppo spesso si dice e si racconta sui media e nel discorso pubblico, ma alla curiosità, alla ricerca, all’approfondimento, all’empatia. La diversità è davvero «risorsa». Di più: è ricchezza. E lo è sempre, al pari dell’amore (quando è vero, cioè non appena autoreferenziale).
Proprio l’incontro tra differenti libertà e dignità, a cominciare da quella essenziale tra donna e uomo, è condizione fondamentale per l’esistenza stessa dell’umanità e per il suo sviluppo. In questo senso, e a questa giusta altezza, la diversità è radicalmente all’antitesi della diseguaglianza. Amare la differenza è scoprirne la bellezza è profondamente umano, e trasforma le nostre parole e i nostri atti in capacità e regole di convivenza e in semi buoni di futuro, fa assomigliare il nostro sguardo sul mondo agli occhi di Dio (quel saper vedere sub specie Dei evocato, con diversa ma non opposta intenzione, dall’amico Paolo Costa nella sua lettera).
Trasformare la diversità (etnica, religiosa, sessuale, socioeconomica) in gabbia e in motivo di ostilità e di esclusione significa, invece, strutturare le disuguaglianze, vuol dire umiliare e sopraffare l’altra e l’altro e finisce, dunque, per generare sofferenza e condurre lungo la china della disumanità. La storia passata lo testimonia, la cronaca del nostro tempo lo conferma. Per questo la scuola e gli altri luoghi della formazione dei singoli e della costruzione della comunità sono preziosi e decisivi, al pari delle assemblee rappresentative, per “fare spazio” ai cittadini e alle cittadine di una società e di un mondo che, oggi come ieri, sono plurali, cioè ricchi di radicate tradizioni e di aneliti alla giustizia e all’assoluto espressi in modo originale, eppure infinitamente più connessi del passato e perciò ancor più provocatoriamente e fecondamente “meticci” e bisognosi di senso e di alfabeto comuni.
Le ideologie totalitarie sono organizzazioni appunto “totali” del pensiero e dell’azione politica e contrarie a tutto ciò che ho appena, rapidamente, descritto parlando della «cultura dell’incontro» in società plurali e pluraliste. Non sono soltanto un fantasma del passato. Sono un rischio presente in una realtà planetaria malamente globalizzata, segnata dal mercatismo e dalla rottura di tante reti solidali, dal ritorno dei nazionalismi armati di slogan e bombe, dall’indebolimento delle democrazie e dalla loro crescente ibridazione con gli autoritarismi, dalla folle rilegittimazione della guerra.
Ma stiamo alla storia. Nel Novecento, le ideologie totalitarie si sono imposte e hanno preteso di realizzare non uguaglianza ma omologazione di massa intorno a idee guida dure, semplici e taglienti. E le masse omologate sono state mobilitate al seguito dei capi e dei loro ristretti circoli di potere. Fascismo, nazismo e stalinismo sono indubbiamente nomi propri del totalitarismo. Sono italiano e non posso e non intendo dimenticare nulla del male fatto alla mia gente e ad altri popoli d’Europa e d’Africa dal fascismo e dal devastante “esempio” dato da Mussolini ai capi delle altre dittature nere instauratesi a partire dagli anni Venti del secolo scorso, ma non mi metterò a fare classifiche tra quei regimi: tutti hanno partorito mostruosità, segnato in modo orribile e indelebile la nostra vicenda collettiva, trasformato idee alte – la patria, il popolo, la giustizia – in strumenti di oppressione e in motori di discriminazione, di persecuzione e di guerra. Tutti sono stati radicalmente antireligiosi e anticristiani. E anche se ci sono stati uomini di fede che, per convinzione od opportunismo, hanno aderito a quelle ideologie e le hanno propagate, anche se alcuni di loro hanno contribuito a incarnare quei regimi totalitari, tanti cristiani, tanti uomini e donne di fede, ne sono stati vittime e oppositori capaci di farsi fulcro, non da soli e mai solo per sé stessi, della resistenza necessaria anche quando sembrava impossibile.
Aggiungo tuttavia, di essere tra coloro che non considerano comunismo e stalinismo sinonimi assoluti. Lo sono stati, purtroppo, per decenni troppo lunghi e drammatici. E anche dopo la destalinizzazione il regime comunista è rimasto oppressivo verso i popoli dell’Urss e i Paesi ridotti a “satelliti”. Ma soprattutto noi italiani dovremmo ricordare che quella vicenda, ormai conclusa e “investita” con esiti alterni ma certamente preziosi in nuove imprese politiche, nella nostra parte d’Europa e del mondo è stata soprattutto una complessa e faticosa storia di partecipazione attiva alla costruzione della democrazia e al suo radicamento, alla civile difesa della libertà di tutti, anche dall’attacco del brigatismo rosso. Lo riconosco da cattolico e da democratico, e sono semplicemente uno dei tanti italiani che non è mai stato comunista e che non dimentica che antifascismo e antibellicismo sono pilastri costituzionali dell’Italia repubblicana.
Alla base delle ideologie totalitarie, argomenta infine il lettore Costa, c’è «una distorta interpretazione dell'uomo». Sono pienamente d’accordo: un’interpretazione che legalizza il disprezzo verso chi è altro e “di troppo”, scomodo e dissidente. Per questo, insisto, è così urgente e benedetto il lavoro di quanti custodiscono e condividono nella famiglia, nella scuola, in ogni altro luogo formativo e attraverso i canali comunicativi del nostro tempo i valori dell’umanesimo integrale che hanno potentemente contribuito a generare l’Italia e l’Europa della democrazia, oggi ferita da sfiducia e delusione, ma ancora libera e resistente. E che bisogna fare sempre più solidale.