Regione del Donbass. Curare l'ansia dei bambini nell'unica guerra in Europa
I minori di questa zona sviluppano comportamenti ossessivocompulsivi, fobie, e c’è chi inizia a balbettare. La psicologa infantile Marina Martynenko con i bambini al centro Caritas di Myronivskyi
L’ultima sosta prima di proseguire senza più possibili deviazioni né pause, come richiesto dalle disposizioni militari, è nella città di Sloviansk. Siamo in Ucraina orientale, ci siamo lasciati alle spalle Kramatorsk per spingerci ancora più a est, verso la 'buffer zone', la zona cuscinetto profonda 20 chilometri lungo la linea del fronte, che divide in due la regione del Donbass. Qui dal 2014 si confrontano l’esercito ucraino e i ribelli separatisti filo-russi che occupano parte dei territori delle città di Donetsk e Lugansk. Questa guerra, l’unica attiva in Europa, è considerata a bassa intensità, ma qui ancora oggi si registrano scontri a fuoco ed esplosioni. «Non venite giovedì, potrebbe essere rischioso», capita di sentirsi dire a chi, come al team della Caritas locale, entra ogni settimana nella zona per portare aiuti. Ad allertare gli operatori umanitari, oltre che i militari, è la stessa popolazione civile. «Sono così abituati ed esperti nell’intuire l’andamento delle tensioni, che sanno prevedere i rischi. Non sappiamo come facciano, ma ci riescono», confida un’operatrice della Caritas.
Appena entrati a Sloviansk, accanto a un bar sul ciglio della strada, c’è l’insegna della città ancora bucherellata dai colpi della violenta battaglia del 2014. Qui il 24 maggio di quell’anno è stato ucciso il fotoreporter italiano Andrea Rocchelli. La via che imbocchiamo si infila dritta in una campagna sconfinata, fra campi di grano e girasoli di un giallo folgorante. La bellezza della natura, in certi posti disgraziati del mondo, sa convivere bene con la tragedia degli uomini. Passiamo attraverso quattro check point, e arriviamo a Myronivskyi, piccolo centro di cinquemila abitanti, la metà trasferitasi altrove all’avvio del conflitto. Due o tre volte a settimana e per ore in ogni occasione, qui si sentono scambi di fuoco ed esplosioni. Vediamo case danneggiate, ancora pericolanti dagli scontri più duri dei primi anni. Nessuno ricostruisce e dentro cucine e salotti sventrati crescono fiori e piante selvatiche.
Il fronte è a soli cinque chilometri, eppure la vita va avanti, per forza, anche qui. C’è chi continua a recarsi al lavoro, in una vicina centrale elettrica, mentre i bambini vanno a scuola: ne incontriamo di varie età, con la coordinatrice Irina Musieva, che lavora per Caritas nell’istituto scolastico locale. «Sembra non ci sia nulla che renda felici questi bambini. Cerchiamo di porvi rimedio con le nostre attività, ma a qualsiasi ora del giorno possiamo venire attaccati dall’altra parte, loro lo san- no e questo rende la situazione deprimente. Alla guerra però ci si abitua, lo fanno anche i più piccoli. Ormai sappiamo distinguere i colpi del nostro esercito da quelli degli altri. Lo capiamo dal suono». Con un pudore che le frena le parole, Irina racconta che «i rumori dei combattimenti non sono tutti uguali. Se a sparare sono i soldati ucraini, poi arriverà la risposta dall’altra parte. All’inizio del conflitto erano tutti terrorizzati, ma con gli anni ci si è adattati a tal punto che i ragazzi non ne parlano nemmeno più. Se comincia uno scontro a fuoco durante le lezioni, con calma scendiamo nel seminterrato, senza panico».
Nello scantinato della scuola c’è un’area attrezzata con acqua e medicinali. Ma non ad ogni scontro si scende nei rifugi, perché, ci spiegano, «siamo in grado di capire anche la distanza degli scambi a fuoco e la necessità o meno di proteggersi». L’abitudine alla guerra non significa che la paura scompaia. E l’esposizione prolungata al rischio porta con sé effetti profondi. Dalla sala della Caritas dentro la scuola, dopo una sessione con i bambini esce Marina Martynenko, psicologa infantile. «Con loro non possiamo avviare un intervento psicologico approfondito, ma insegniamo esercizi per respirare, controllare lo stress e proponiamo giochi che facciano affiorare le emozioni. Da uno studio che abbiamo realizzato è emerso che i minori di questa zona sperimentano l’ansia tre volte più degli altri. Manifestano poi effetti psicosomatici, dermatiti, sviluppano il diabete, comportamenti ossessivo-compulsivi, fobie e c’è chi inizia a balbettare. I livelli di attenzione, memoria e reazione agli stimoli sono più bassi. Così tra i genitori c’è apprensione per la reazione tardiva ad esempio a un’esplosione, che li porta a correre più rischi». Cinque anni fa uno studente della scuola è rimasto ucciso insieme al padre. A lungo la sua foto è stata appesa nell’istituto. «Poi l’abbiamo tolta, per non tornare ogni volta a quel cattivo ricordo».
A Myronivskyi in questi anni sono morti venticinque civili. Delle 14mila vittime in tutto il Donbass, oltre 3mila si contano tra la popolazione. Di recente l’International Crisis Group ha pubblicato una mappa interattiva delle vittime dell’ultimo anno e mezzo, da entrambe le parti del fronte: 235 i morti, di cui 30 civili, la metà per le mine, 114 i feriti tra la popolazione. Il più alto tasso di civili coinvolti si riscontra nelle aree occupate, dove il territorio è più densamente popolato. «Qui accade sempre qualcosa, manca l’elettricità se viene colpita una centrale elettrica, o l’acqua, se lo è la rete idrica. C’è sempre qualche ragione che impedisce di vivere in maniera normale» spiega Yevgen Kulik, anche lui di Caritas. «Distribuiamo pacchi alimentari e di medicinali, negli ultimi due anni oltre 2.200, e diamo un’attenzione particolare ai più anziani, che spesso rimangono soli dopo che i figli si trasferiscono per cercare lavoro. Mancano servizi essenziali e mezzi di trasporto: ci sono centri dove non esistono negozi. Sappiamo di una donna anziana, più in forze dei suoi vicini, che percorre 5 chilometri a piedi per fare acquisti anche per gli altri. Prende ciò che può e torna».
A Myronivskyi l’ospedale è chiuso dall’inizio della guerra. Proprio alla questione vitale dell’accesso alle strutture sanitarie si rivolge l’intervento di Medici senza Frontiere (Msf). «Lavoriamo nella buffer zone in collaborazione con le strutture esistenti del governo» spiega da Mariupol, Alexander Shcholov, coordinatore dello staff medico. «In ogni villaggio abbiamo un team di attivisti, persone impegnate già in precedenza nelle loro comunità e che dispongono di un mezzo di trasporto. Forniamo voucher per pagare il carburante in modo che possano portare i pazienti nei centri medici». Msf mette così in collegamento la popolazione con i piccoli ambulatori, là dove esistono, e con i presidi sanitari maggiori. «Nell’arco di sei mesi abbiamo trasportato 126 persone dai loro medici di famiglia e 176 da specialisti come cardiologi e neurologi. Oltre un centinaio ha potuto sottoporsi ad analisi» spiega Katerina Stepanina, educatrice sanitaria Msf. «Consegniamo medicinali, servizio rilevante considerando che molti pazienti sono anziani e con malattie croniche, diabete, ipertensione, asma, a cui si aggiungono complicazioni mentali per il prolungato stress. Di questi casi si occupano i nostri psicologi».
Sa bene quanto disperato bisogno ci sia tra gli anziani di venire ascoltati e compresi, Katerina Ruzanska, psicologa di Caritas: «Hanno nel profondo dell’anima una grande paura, per questo ci chiedono tranquillanti, per smettere di pensare. Noi forniamo metodi per controllare l’ansia e i pensieri negativi. Quando lavoro con i giovani percepisco che loro hanno più paura per il futuro, mentre gli anziani si accontentano se un giorno trascorre senza sentire scontri a fuoco». A Myronivskyi, in interviste separate, chiediamo a due donne cosa rimpiangano di più della loro vita prima della guerra: «Il silenzio» rispondono entrambe, senza nemmeno pensarci. Perché se pure a bassa intensità, questo conflitto, con i suoi rumori terrificanti, ricorda senza sosta, ogni giorno, ogni minuto, da sette anni, che a rischio è la loro vita.
(2- fine. La puntata precedente è stata pubblicata il 15 settembre)