La crisi turca e le sue conseguenze. Ingoiare l'orgoglio
Lo scenario non è dei più incoraggianti. Da gennaio a oggi la lira turca ha lasciato sul terreno il 30% del suo valore penalizzando sia i prezzi dei beni di consumo sia le imprese, costrette a onorare i propri debiti in valuta estera con una divisa il cui valore è drammaticamente crollato: basti pensare all’euro, che un tempo veniva scambiato alla pari e oggi esige circa 6 lire, o al dollaro, che ieri in pochi minuti si è apprezzato di un ulteriore 13%, mentre sul mercato obbligazionario i rendimenti dei bond decennali sfondavano quota 20% e il tasso di inflazione galoppa ormai oltre il 15%. Ma, come si può facilmente immaginare, non si tratta di una faccenda soltanto interna alla Turchia. Istituti come l’italiana Unicredit, la francese Bnp-Paribas, la spagnola Bbva rischiano di pagare cara la tempesta monetaria turca. Così come rischia la stessa Unione Europea, che assorbe il 40% dell’interscambio commerciale con Ankara (l’Italia è il quinto partner con 19,8 miliardi di dollari nel 2017 – di cui 11,3 di esportazioni).
Ma cosa si cela dietro questa crisi valutaria? Ancora una volta l’eterno paradosso turco, quello cioè di una grande nazione, cruciale per posizione e influenza geopolitica in tutta l’area mediterranea e mediorientale nonché strategica in quanto membro della Nato; una nazione che è al tempo stesso avvitata su stessa – e qui sta il paradosso – proprio grazie alla vittoriosa longevità del suo presidente: quel Recep Tayyp Erdogan, di fatto padre-padrone di una Turchia uscita con la travolgente affermazione del partito di intonazione confessionale Akp dal laicismo costituzionale del suo fondatore Kemal Atatürk ed approdata ormai da qualche anno ad una forma ibrida (e assai lontana dai criteri europei) di democrazia autoritaria innestata su trasparenti nostalgie neo-ottomane.
Una deriva che in parte ha illuso Erdogan di poter disporre a proprio piacimento non solo della Costituzione, della magistratura (cinquantamila fra funzionari pubblici, esponente delle Forze armate e dell’ordine, militanti politici, giornalisti si trovano tuttora dietro le sbarre accusati di tramare contro lo Stato), della conduzione degli affari esteri, ma anche dell’economia, materia friabile e scarsamente dominabile anche dai governanti più avveduti. La nomina – familistica, come è tentazione inesorabile di ogni sultano che si rispetti – del proprio genero Berat Albayrak come nuovo ministro dell’Economia e delle Finanze (personaggio pressoché digiuno della materia, ma subito pronto ad additare i mali del Paese – ma diciamo pure i propri errori – come risultato di un complotto internazionale), rispecchia quella perdita di lungimiranza e di lucidità politica che per lungo tempo era stato il fiore all’occhiello di Erdogan e il volano della grandiosa crescita economica del Paese che gli aveva garantito vittorie elettorali plebiscitarie.
Una perdita di contatto con la realtà («Se loro hanno i dollari, noi abbiamo dalla nostra la gente, la giustizia e Dio», è la sua risposta alla tempesta monetaria) che ha messo rapidamente in allarme la comunità finanziaria internazionale. Ma i proclami millenaristici, anche quelli del Presidente turco, hanno scarso effetto nel gelido mondo delle Borse, dei mercati, della finanza. E non saranno certo i recenti affari con Mosca (l’acquisto del sistema missilistico antagonista della Nato, le annunciate centrali nucleari, il gasdotto Turkish Stream con Gazprom e le interessate rassicurazioni di Putin) o il rinnovato legame con Teheran a condurre la Turchia fuori dalla crisi. Che anzi rischia di avvitarsi ulteriormente, visto che Donald Trump (complice l’irrisolta vicenda del pastore Brunson, detenuto in Turchia per terrorismo) ha appena annunciato un raddoppio dei dazi sull’acciaio e l’alluminio turco.
Che ci sia una guerra commerciale in corso oltre che una tensione diplomatica non v’è dubbio. Che Ankara la possa vincere è estremamente improbabile. La soluzione? “Swallow the pride”, come dicono gli americani: ingoiare l’orgoglio (cosa molto ardua per Erdogan). E venire a patti. Entrambe, l’Europa e Ankara, hanno bisogno l’una dell’altra e non è nemmeno pensabile che la crisi turca possa trasformarsi in una ben più vasta e tragica replica di quella greca.