Opinioni

Riforme e polemiche. Crisi, stiamo al punto: questo è davvero tempo di fare

Francesco Riccardi venerdì 22 maggio 2009
Nella relazione che Emma Marcegaglia ha pronunciato ieri all’assemblea di Confindustria c’è un passaggio rimasto sotto traccia, in realtà fondamentale. «Senza riforme – dice la presidente – occorrerà attendere fino al 2013 per recuperare i livelli produttivi di prima della crisi. Un arco di tempo troppo lungo per non avere conseguenze negative sulla vita dei lavoratori, delle imprese e sulla stessa coesione sociale».È vero, i segnali positivi iniziano a far capolino e con ogni probabilità già dall’anno prossimo la recessione sarà finita. Ma, avvertono gli industriali, la caduta è stata così pesante da richiedere forti ritmi di crescita della produzione e del Pil per essere pienamente recuperata. E l’Italia, da un decennio a questa parte, non è mai cresciuta oltre l’uno virgola qualcosa. Sarà questa la sfida che attende il Paese: per tornare a respirare fuori dall’acqua della crisi occorrerà, non tanto rimettersi a galleggiare, quanto nuotare con decisione, darsi una spinta forte. Altrimenti, alla lunga, le vittime della crisi in termini di disoccupati e nuovi poveri rischiano di essere più di quante non se ne registrino oggi, nel pieno della tempesta.Ma a quali risorse attingere per dare questo colpo di reni? La presidente della Confindustria ha indicato con chiarezza la propria ricetta: «Si facciano le riforme, subito, adesso». A partire da quella delle pensioni, liberando così risorse da destinare agli investimenti. Ora, a rendere necessario un graduale aumento dell’età minima pensionabile è l’allungamento della vita media dei cittadini e la nostra stessa struttura demografica, ormai a piramide rovesciata, con pochi bambini e moltissimi anziani. Tanto che persino il sindacato non oppone più un «no» pregiudiziale, ma pone condizioni, più o meno pesanti, sul "come" eventualmente procedere. Il più restìo ad operare in questo momento, in realtà, è il governo, che ancora ieri con Tremonti ha tagliato corto: «Se ne parlerà a tempo debito».Non illudiamoci, però, che sia la pur necessaria riforma delle pensioni a portarci fuori dal guado. Fondamentale appare in realtà un cambio di passo deciso nel modo di fare impresa e di lavorare nel nostro Paese. Investimenti, ricerca, innovazione, focalizzazione sul prodotto, spinta all’export e soprattutto un più stretto rapporto lavoratori-azienda sono le chiavi per accendere un nuovo, più solido sviluppo. La Confindustria e la parte più avanzata del sindacato l’hanno capito e, rinnovando il sistema contrattuale, hanno cominciato a gettare le basi della nuova fase. Che adesso, però, deve trovare concretezza: in un incremento significativo dei salari (troppo bassi), in comportamenti premianti per i giovani (troppo a lungo precari nelle aziende), nell’apertura convinta alla partecipazione nelle sue diverse forme, nell’agevolare, da parte del sindacato, la crescita della produttività delle aziende.Una notazione, però, è a questo punto necessaria. Mentre nel mondo produttivo si delinea – pur con fatica ed eccezioni – un nuovo clima d’intesa e di collaborazione, in vista d’un bene comune, in politica si avverte qualcosa di inverso, un’involuzione, un avvitarsi su se stessi. Ovvio, siamo in campagna elettorale, e l’opposizione non esita a sparare i suoi colpi. Ma è quantomeno deludente che il premier non utilizzi linguaggi adeguati e pertinenti, che all’assemblea degli industriali replichi la polemica sui giudici e riapra quella sul Parlamento, che non rinunci al battutismo. Si può per favore parlare di strategie economiche, del futuro delle imprese e della vita dei lavoratori, anziché di veline e toghe, in questo Paese?