Gentile direttore, gradirei che lei esprimesse un parere circa la scarsissima lettura di quotidiani che, purtroppo, caratterizza il nostro Paese. Personalmente ho ricevuto precisi insegnamenti sin da adolescente (dai miei genitori), durante la frequentazione della scuola secondaria di secondo grado (con la famosa ora destinata alla lettura dei quotidiani) fino a giungere a pochi anni fa, quando, da laureando, riscontravo l’esigenza di leggere dettagliatamente la realtà politico-sociale-economica del nostro Paese per fini di studio (ricordo il professore, mio relatore per la tesi, che illustrava approfonditamente l’importanza della lettura dei quotidiani). Oggi in molte famiglie italiane – da Bolzano a Marsala – manca del tutto la consuetudine di leggere quotidiani, e mi riferisco non solo a posizioni di persone che vivono situazioni di disagio o sono economicamente precarie, ma anche a casi di persone con affermata professionalità. Ne prendo atto a malincuore e ritengo che ciò sia altamente mortificante.
Fabio Lioy, AvellinoÈ vero, gentile signor Lioy, in Italia si legge poco, molto poco, purtroppo sempre meno. E, a quanto pare, si tratta di uno «spread» col resto d’Europa (e di tanta parte del mondo) destinato ad appesantirsi, e non solo per motivi economici. Non possiamo neppure consolarci con l’idea di saper comunque essere, soprattutto davanti alla tv, assidui «spettatori»: una condizione – quella di chi sta a guardare e non compie il gesto di "uscire" per cercare "la" o meglio "le" sue fonti d’informazione – che non è certo ideale per tutti coloro che ambiscono a vivere compiutamente la dimensione della propria cittadinanza..."Avvenire", in tale non esaltante condizione generale italiana, tiene molto bene il campo grazie a una straordinaria sinergia tra i suoi cronisti e i suoi lettori, oltre che alla lungimiranza del suo editore. Ma neanche questo dato, per noi ovviamente importantissimo, può consolare più di tanto. Nessuno si salva da solo e nel giornale d’ispirazione cattolica – che tra l’altro, attraverso Popotus, "forma" da più di 17 anni giovanissimi lettori e non lo fa solo per sé – lo sappiamo molto bene. Tanti, anche tra gli addetti ai lavori nel nostro settore, si concentrano sul «tempo» nuovo che stiamo vivendo e interpretano la crisi di rapporto tra lettori e giornali cartacei in chiave di difficoltà economiche degli acquirenti e di nuovi canali informativi disponibili (via web e attraverso tablet e cellulari avanzati). C’è del vero, ma se fosse così ci sarebbero da affrontare "solo" una grave congiuntura economica e una nuova evoluzione della forma-giornale (che, pure, sta avvenendo e propone e impone mutamenti assai seri e persino rivoluzionari). Nella crisi dei giornali c’è, invece, molto di più. C’è anche un ritiro della stima, un diniego di fiducia. E questo è il grande problema, prodotto principale di una stagione d’informazione agli estrogeni, spesso sommaria, gridata e addirittura volgare, che ha appiccato rutilanti fuochi, illuminato brevi fasi di (apparente) successo e ridotto in cenere montagne di copie e tanta parte della credibilità di noi giornalisti. Per questo cerco – con i miei ottimi colleghi di "Avvenire" e specchiandomi con soddisfazione nel lavoro di bravi colleghi di altre testate – di dimostrare che un altro modo, quello giusto e davvero utile a chi legge, è ancora e sempre possibile. Ma, da innamorato dei giornali e della ricca diversità delle voci informative, sono preoccupato, di una preoccupazione che, come la sua, è culturale e civile. La crisi di rapporto giornali-lettori mortifica, ovviamente, chi fa informazione, ma mortifica almeno altrettanto anche i troppi italiani che non sono informati abbastanza.Il rischio, a mio parere, è doppio. Per un verso, viviamo in una "nuvola di notizie" che sembra trasformarsi in manna che piove sulle nostre giornate in tanti modi, ma che – a differenza dell’alimento biblico – dà solo una gratuita sensazione di sazietà, non un vero e adeguato nutrimento informativo: non offre, cioè, con giusta continuità racconti ben verificati, articolati ed efficaci dei fatti che accadono e che ci riguardano. Per un altro verso, la perdita o la rinuncia a essenziali strumenti di consapevolezza (questo sono i giornali fatti con onestà e profondità) finiscono per impoverire le nostre comunità e mettono a rischio persino la nostra democrazia. Insomma, caro signor Lioy, capisco le sue riflessioni «a malincuore», e soprattutto sono d’accordo con lei sul fatto che non possiamo rassegnarci a esse. La mia parte di risposta sta nel fare bene il mio mestiere, la sua nel conservare il gusto di scegliersi uno o più giornali (di carta e digitali), ma anche di insegnare ai più giovani come e perché, scegliendo, si dà fiducia. A occhi aperti.