I segni della fede. Si fa presto a dire «simboli». Un po' di vera e sana laicità
L'attuale stagione politica, compreso il dibattito cui abbiamo assistito al Senato sulle comunicazioni del presidente del Consiglio italiano, usa purtroppo a sproposito la parola "simbolo", affiancandola all’aggettivo "religioso". Il linguaggio è importante e talvolta va purificato, onde evitare volgari fraintendimenti. Come tutti sanno l’etimo del termine "simbolo" dice "tenere insieme" realtà distanti, ma dice anche ricomposizione di persone che si sono allontanate. Se poi si riflette sull’aggettivo "religioso" si tratta del tenere insieme il trascendente e l’immanente, l’infinito e il finito, l’eterno e il tempo. Non mi pare che da una parte e dall’altra si sia rispettato questo orizzonte di senso.
Certo ogni dimensione dell’esistenza deve cercare di coniugarsi con l’oltre, ogni aspetto della storia con il metastorico, ma sempre e comunque in un contesto preciso e ben determinato. Decontestualizzare i simboli, siano essi religiosi o sociali, naturali o culturali significa profanarli, banalizzarli e defraudarli della loro profonda valenza valoriale. E questo vale per tutto l’universo simbolico che è tipica espressione dell’umano, poiché l’uomo è un «animale simbolico», secondo la felice espressione di Ernst Cassirer. La bandiera, l’inno, la croce, l’icona hanno e rivelano il loro senso solo nel contesto che è loro proprio. Altrimenti vengono strumentalizzati e profanati.
Certo il simbolo ci identifica e al tempo stesso ci unisce, mai dovrebbe dividere e alimentare conflitti di civiltà e di appartenenze tanto meno politiche e, peggio ancora, partitiche. Ma, prima ancora che di deprecabili comportamenti di parte, questa funzionalizzazione e strumentalizzazione dei simboli è indice di una modalità culturale, che nemmeno il ricorso alla barbarie può giustificare, in quanto anche il "mondo dei barbari" era un universo profondamente e autenticamente simbolico.
La contrapposizione su questo terreno è a mio avviso sterile, se non nociva e serve solo a chi intende enfatizzare il conflitto. Insomma così facendo in ultima analisi si fa il gioco dell’avversario. Meglio il silenzio, unitamente alla capacità di tornare a esprimere il nostro universo simbolico nel contesto che gli è proprio: quello autenticamente religioso e credente, civile e culturale. E questa di chiama laicità.
Quando subisco a questo proposito il blaterare dei politici di turno, mi tornano in mente i versi di Charles Baudelaire, in "Corrispondenze": «La natura è un tempio dove pilastri viventi / lasciano talvolta sfuggire confuse parole; / l’uomo vi passa, attraverso foreste di simboli, / che lo guardano con sguardi familiari. / Simili a lunghi echi, che di lontano si confondano / in una tenebrosa e profonda unità / vasta come la notte e come la luce / i profumi, i colori e i suoni si rispondono. / Profumi freschi come carni di bimbi, / dolci come il suono dell’oboe, verdi come praterie. / E altri corrotti, ricchi e trionfanti, / vasti come le cose infinite: / l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso, / che cantano i rapimenti dello spirito e dei sensi».
Teologo, Pontificia Università Lateranense