Calo demografico. Crisi delle nascite come riflesso di «passioni tristi» e incertezza
Una lettura sociologica e culturale dell’inverno demografico dell’Italia e dell’Occidente
Il tema del cosiddetto inverno demografico, quello che gli esperti chiamano la transizione demografica dell’occidente sviluppato, è un tema su cui non può non interrogarsi in maniera preminente il mondo cattolico, come ci indica la dottrina sociale della Chiesa, che contempla tra le priorità quella della tutela, riproduzione e sviluppo in senso cristiano dell’umanità. L’inverno demografico mette in discussione quell’insieme di valori, gettando un’ombra sul futuro del nostro contesto umano e sul benessere delle nostre comunità. I dati sono noti. Negli ultimi 100 anni la popolazione mondiale è più che quadruplicata grazie all’allungamento della vita, al miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e alla progressiva diffusione di stili di vita di tipo occidentale, e il pianeta ha raggiunto proprio in questo periodo gli 8 miliardi di persone. Si prevede che attorno al 2100 si arriverà a una sorta di stabilizzazione, caratterizzata però da un diverso equilibrio tra generazioni, con molti anziani e pochi giovani (la famosa piramide rovesciata).
Ma le differenze rimarranno forti, sia in termini di popolazione complessiva, che di rapporto giovani-anziani. L’Africa passerà da 1 miliardo e 300mila abitanti di oggi a 4 miliardi e 300mila. L’Asia da 4 miliardi 600mila a 5 miliardi e 300mila. Mentre l’Europa passerà da 750 milioni a 630 milioni. E se confrontiamo le due sponde del Mediterraneo, che per tanti motivi ci interessano in modo particolare, i paesi della sponda nord (Spagna, Francia, Italia e Grecia) a seguito della cosiddetta seconda transizione demografica subiranno un calo accentuato di mortalità, natalità e popolazione, mentre i paesi della sponda sud (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto) continueranno ad avere tassi di natalità alti e popolazione in crescita, tipici della cosiddetta prima transizione demografica. In questo contesto l’Italia registra da anni un calo delle nascite progressivo ed accentuato: i nati sono diminuiti del 30% solo dal 2008 a oggi, e non si è registrata nessuna ripresa a seguito della pandemia, come pure qualcuno aveva ipotizzato. La popolazione è quindi destinata a calare dai 59 milioni e 200mila del 1° gennaio 2021 ai 47 milioni e 700mila previsti per il 2070, e gli equilibri precedenti ne usciranno sconvolti, con un rapporto tra individui in età lavorativa (1564 anni) e non (0-14 e 65 e più) che passerà da 3 a 2 nel 2021 a 1 a 1 nel 2050.
È evidente che una simile situazione, ben documentata da organismi internazionali e nazionali, ci costringe a riflettere con particolare attenzione sugli equilibri geo-politici mondiali, sulle migrazioni, sulle implicazioni economiche e sociali dello squilibrio (scuole, fabbriche, servizi, sistema pensionistico, ecc.), e anche su quelle di tipo antropologico e valoriale, sul modello di società e sulla sostenibilità a lungo termine di tutto ciò. Per quanto riguarda gli assetti di welfare e il rispetto dei diritti sociali sanciti dalla Costituzione per quanto riguarda la procreazione, la maternità e la paternità e le famiglie, l’Italia è definita nelle classificazioni scientifiche internazionali un Paese “familistico”, ma non nel senso che valorizza le famiglie, in quanto si tratta di un familismo basato su di un’ampia delega alla famiglia, e soprattutto alla donna madre, per tutta la gamma delle funzioni generative e rigenerative, compresa la cura dei soggetti fragili. Un paradosso che si sostanzia nella debolezza degli aiuti per le funzioni riproduttive e dei servizi per la famiglia, i minori e le famiglie numerose, negli ostacoli che riguardano la conciliazione tra lavoro e vita privata, l’accesso al lavoro ed il giusto trattamento lavorativo dei giovani e, in sostanza, nella mancata giustizia sociale rispetto al desiderio di generatività e di famiglia, che pure risulta alto. Tutti temi da molto tempo all’ordine del giorno e sui quali si è cominciato a intervenire, in particolare con il recente Family Act, ma in maniera ancora insufficiente.
Ma, oltre agli aspetti di politica sociale, un’importante questione di cui tenere conto è quella dei fattori antropologici e psicologici che influenzano la denatalità. Il nesso tra calo della natalità e deriva valoriale individualistica e consumistica è evidente. La nostra è sempre più una società che scivola sugli avvenimenti del presente, dimenticando le connessioni tra passato, presente e futuro, quelle tra diverse generazioni e quelle tra continenti e nazioni. Una società “a-generativa” e delle “passioni tristi”, nella quale la pandemia da Covid-19 è intervenuta moltiplicando le incertezze rispetto al futuro, la solitudine, l’ansia ed il disagio psicologico. Come ha certificato lo stesso Fondo Monetario Internazionale il 15 aprile scorso, segnalando che i due primi decenni del secolo si caratterizzano proprio per l’escalation dell’incertezza in tutto il globo, e gli ultimi due anni hanno accelerato la tendenza. Lo stesso Istat ha mostrato per l’Italia, dati alla mano, la connessione tra i due fenomeni dell’incertezza e della denatalità.
Con il passaggio di secolo e di millennio avevamo immaginato che il mondo globalizzato, e in particolare l’Europa, non avrebbero incontrato ostacoli rispetto al percorso di crescita lineare di ricchezza, salute, sicurezza e benessere. Il succedersi delle crisi, economiche, geopolitiche e umanitarie, assieme alla delusione per le tante attese mancate e per una sorta di continua “eterogenesi dei fini”, hanno prodotto invece un calo generalizzato di tensione collettiva. Tanto che si parla di una vera e propria crisi antropologica di una umanità che, non riuscendo a governare i processi di modernizzazione, si sottomette ad un eterno ritorno al passato, la nota Retrotopia di Bauman, che comporta “ritorno alle tribù”, agli steccati, chiusura rispetto ai diversi e aumento delle disuguaglianze. Una situazione che può essere contrastata solo sostenendo le tante realtà sociali dinamiche che si collocano all’interno del movimento per lo sviluppo sostenibile e di quello della Laudato si’. Un’alternativa importante, in grado di contrapporre alle visioni distopiche e alle “passioni tristi” – del rancore, della paura e dell’odio – la valorizzazione delle spinte positive provenienti dal basso, dal mondo del volontariato, dalla solidarietà interpersonale e comunitaria, anche intergenerazionale, dalla partecipazione civica.
Di nuovo l’Istat, in una recente analisi riportata nel recente Rapporto sulla Sussidiarietà, dimostra statisticamente la correlazione positiva tra il “sentimento di sé relazionale” – la soddisfazione per le proprie relazioni sociali –, le forme di partecipazione civica – le attività di condivisione, l’attivismo sociale e il volontariato – e lo sviluppo collettivo – misurato attraverso gli indicatori di salute, benessere economico, innovazione e cultura –. Ma occorre occuparsi seriamente anche dello sviluppo mondiale da ricostruire, in un mondo dove tutto è interconnesso. Come non connettere ad esempio i cambiamenti demografici in corso con la cosiddetta “fuga dei cervelli” dall’Italia, il fenomeno per cui le forze sociali e lavorative più vivaci e forti del paese emigrano. Tra il 2011 e il 2020 gli italiani emigrati ogni anno sono passati da 80mila a 160mila, e si tratta in gran parte di giovani, donne, del sud, e altamente qualificati. Mentre i rimpatri ammontano a poche decine di migliaia e riguardano soprattutto anziani e pensionati. E come non riflettere criticamente sui contesti di vita dei paesi del Sud del mondo, nei quali tanti giovani, oppressi dalla miseria e dalle guerre, sono costretti a partire alla ricerca di lavoro e dignità per sé e per i propri cari.
Tre aspetti cruciali sono alla base della denatalità: l’inadeguatezza delle politiche di welfare, una società che tende a essere a-generativa e un mondo pieno di squilibri e di sacche di povertà assoluta. Tre questioni di importanza fondamentale se vogliamo che il mondo del futuro sia un mondo centrato sui valori della giustizia sociale e della generatività, come quintessenza di un sano umanesimo della modernità centrato sulla dottrina sociale della Chiesa.