Opinioni

Il direttore risponde. Crescere, come “cresce” il pane

Marco Tarquinio mercoledì 4 aprile 2012
​Gentile direttore,
oggi si mette in discussione l’articolo 18 dicendo che così si incoraggerebbero le imprese (italiane e straniere) a investire nel nostro Paese. In nome della crescita. E se invece che cercare la crescita tornassimo a un modo di vivere più sobrio, meno consumistico, più realmente spirituale? Se le imprese (ammesso che fare impresa sia morale) rinunciassero almeno a una parte del loro profitto per poter far vivere decentemente i loro operai? Non trova che tutto ciò sarebbe veramente cristiano?
Nicoletta Nomellini
Capisco i suoi interrogativi e so, gentile signora Nomellini, che non è certo l’unica a misurarsi con dubbi così suggestivi e incalzanti. E io che sono e resto convinto che le società – come le persone – non possono fare a meno di crescere se sono davvero vive, la penso come lei sull’opportunità di un generale recupero di sobrietà (e di povertà spirituale) o, come mi piace dire, della riscoperta di quanto possa esser bello e utile tornare a "a quote più normali" (e solide) nella vita personale, nella relazione con gli altri e con le cose, nello stesso rapporto con Dio. Credo anch’io che solo così i poveri saranno meno poveri, le distanze tra di noi meno stridenti e pesanti, lo scandalo dell’opulenza di pochi e della miseria e dell’inedia di troppi meno lancinante. C’è una sua frase, che ha posto tra parentesi, cara signora, che mi ha colpito con forza : «Ammesso che fare impresa sia morale»… Beh, vorrei dirle che non mi sfiora neanche per un momento il dubbio che «fare impresa» non sia morale. Immorale è fare impresa in modo cinico, o potremmo dire senz’anima, cioè insensato dal punto di vista comunitario, incurante di chi lavora "per" e "con" l’imprenditore, ingordo solo di profitto per sé. Ma questo, in realtà, non è fare impresa è solo un bieco e ottuso fare affari o, meglio, un drammatico dis-fare (e dis-farsi) negli affari, nella sistematica negazione dell’autentico intraprendere che è, sempre, realizzare per sé e per gli altri. Nella storia passata e, ancora, nel faticoso oggi di noi italiani è possibile trovare – pur tra contraddizioni, egoismi e piccolezze – conferme eloquenti e persino luminose di quello che scrivo. Se poi alziamo lo sguardo oltre le Alpi, in particolare in direzione della Germania, e guardiamo nella vicenda di altri popoli europei figli della nostra stessa cultura cristiana, possiamo constatare che, proprio in questo tempo di crisi, l’idea di una economia sociale di mercato – ovvero della libertà coniugata con quella robusta ed esigente forma di responsabilità che è la solidarietà – si dimostra non un’idea vana e vanamente collaborativa nel tempo della competizione e speculazione più dura e globale, ma una solida via maestra. Noi cristiani, noi cattolici, non abbiamo – a differenza di altri – la pretesa di realizzare il Paradiso in terra, ma sappiamo che è qui e ora che dobbiamo prepararlo e meritarcelo. Anche facendoci lievito e sale per far crescere nel modo giusto le nostre società, proprio come "cresce" un pane.