Opinioni

Il filosofo Sandel. Credere di essere autosufficienti. Così la meritocrazia ci inganna

Pietro Saccò sabato 7 maggio 2022

Il filosofo Sandel: «Dal successo personale all’ingegneria genetica, se l’umanità pensa che ciascuno possa farsi da sé, alimenta solo le disuguaglianze. Cercare il bene comune»

Prendersela con la meritocrazia in Italia rischia di sembrare un inutile accanimento. Nepotismi, clientelismi e corruzioni varie da decenni soffocano i tentativi di premiare il merito e hanno spinto decine di migliaia di italiane e italiani capaci a mettere a frutto altrove i loro talenti. Il filosofo Michael Sandel, che con La tirannia del merito ha scritto la più acuta critica all’ideologia meritocratica, sa che il rischio di essere travisati esiste. «Le alternative alla meritocrazia che ho in mente naturalmente non hanno niente a che vedere con il familismo o cose del genere. Al contrario, hanno al centro le politiche per il bene comune e un tipo di solidarietà che occorre alla società, ma che è molto difficile ottenere se le persone sono convinte di essere gli unici artefici del proprio successo» ci spiega Sandel in un piovoso pomeriggio milanese poco prima di intervenire all’Università Cattolica di Milano per il ciclo di conferenze che celebra il centenario dell’ateneo. L’argomentazione anti-meritocratica di questo filosofo di Harvard, in Italia stampata da Feltrinelli, è diventata un caso globale, premiata come miglior libro del 2020 da Guardian, Bloomberg, New Statesman, The Times Literary Supplement, Le Point e anche dal cinese New Weekly.

Nel maggio dello scorso anno Avvenire ha dedicato tre ampie analisi al tema della meritocrazia, a firma di Luigino Bruni con Paolo Santori, Vittorio Pelligra e Andrea Lavazza. Dentro c’era molto della tesi di Sandel, che essenzialmente si può sintetizzare così: il successo personale non è solo il frutto del proprio impegno e del proprio talento, ma anche della fortuna e di diversi altri fattori sociali. Una società diseguale ha però costruito attorno al merito personale un’ideologia che giustifica moralmente il successo di chi riesce e condanna e umilia chi non ce la fa, sgretolando così il senso di bene comune e di solidarietà essenziali per la vita democratica. «Nelle mie lezioni amo porre domande che nella nostra società si fanno raramente – spiega –. Chiedo se chi ha successo può dire di meritarselo. Chiedo se all’idea meritocratica secondo la quale chi ha successo merita ciò che ottiene non manca forse qualche pezzo importante, cioè il ruolo che nel- la vita ha la fortuna, e il nostro debito nei confronti delle famiglie, della comunità, degli insegnanti, delle nazioni, dei tempi in cui viviamo, di tutti coloro che rendono raggiungibili i nostri risultati».

È la stessa illusione di autosufficienza che Sandel sfida in un altro libro, Contro la perfezione, che Vita e Pensiero ha ristampato quest’anno e che affronta il tema dell’ingegneria genetica: «Critico l’ingegneria genetica usata per scopi diversi dalla cura, come il miglioramento del quoziente intellettivo degli esseri umani, o le loro prestazioni fisiche e mentali. Come la meritocrazia, queste tecniche si basano sull’idea che siamo esseri autosufficienti. Avere figli 'progettati' secondo l’idea di quello che vogliamo è un’altra espressione della volontà di dominio sull’esistente contrapposta all’apprezzamento della vita come un dono».

Nato a Minneapolis e cresciuto a Los Angeles, Sandel è diventato il grande critico del 'sogno americano', quello secondo cui con il duro lavoro chiunque può farcela. Intanto perché i dati dicono che la mobilità sociale negli Stati Uniti è ormai più bassa di quella di almeno una decina di Paesi dell’Ocse (com- presi Canada, Germania, Spagna e Giappone). E poi perché ha portato a una visione sbagliata del problema della diseguaglianza, che difatti è drammaticamente peggiorato negli ultimi quarant’anni. In questo senso, secondo Sandel, Barack Obama ha sbagliato troppo. «Io ho votato per Obama. Il problema è che nonostante i suoi molti punti di forza non ha saputo rispondere al problema della diseguaglianza – spiega il filosofo –. Ha usato la retorica del 'farsi da sé', del conquistare una laurea.

Ma questo messaggio non è rilevante per la maggioranza degli americani, che come la maggioranza degli italiani non ha la laurea. Non possiamo combattere diseguaglianza, stagnazione dei redditi e perdita dei posti di lavoro dicendo alla gente che deve migliorarsi, che deve studiare. Non possiamo colpevolizzare i poveri ». È anche colpa di Obama se tra le classi più povere americane è cresciuto un risentimento che ha portato all’elezione di Donald Trump, che ha saputo vedere e sfruttare i loro problemi senza risolverli, secondo una dinamica tipicamente populista. Sandel ha più fiducia in Joe Biden («il primo presidente democratico da 36 anni che non è uscito da un’università della Ivy League») ma soprattutto nel cancelliere tedesco Olaf Scholz, che ha incontrato durante la campagna elettorale e che ha adottato molte delle idee del filosofo di Harvard, parlando spesso della necessità di 'rispetto' per i tedeschi messi alla prova dalla globalizzazione. Gli chiediamo se vede uno Scholz italiano: «Non mi sembra ce ne siano, ma non conosco abbastanza bene la vostra situazione politica. Alla Cattolica incontrerò Romano Prodi, che ho già conosciuto prima di scrivere il libro, mi è sembrato abbastanza simpatetico…».

Molti accusano Sandel di non proporre un’alternativa precisa all’ideale meritocratico. «L’alternativa è quella della politica del bene comune, con al centro la dignità del lavoro e quindi il principio che chi lavora deve sempre essere ricompensato con uno standard di vita accettabile per sé e per la sua famiglia. Solo se accettiamo che il successo dei suoi individui non è il fine ul- timo della società possiamo ritrovare la solidarietà di cui abbiamo bisogno». La società contemporanea non sembra però troppo interessata al bene comune. «È chiaro, da quarant’anni andiamo nella direzione opposta: il consumismo, il mercato, la pubblicità, dovunque guardiamo vediamo incoraggiamenti a essere noi stessi, unici, autosufficienti e meritevoli di tutto – dice Sandel –. In questo contesto ciò che mi fa sperare è che molte persone si accorgono che questo modello è insoddisfacente.

Anche il fenomeno delle Grandi dimissioni è figlio dello stesso sentimento: metti tutto te stesso nel lavoro e poi vedi che la soddisfazione che il lavoro ti dà non basta. Le persone cercano un senso della vita più grande di quello che il consumismo e l’ideale meritocratico possono offrire. Io mi auguro che questa fame di senso, che vedo anche nei miei studenti di Harvard, così come nei tanti giovani che ho incontrato in Cina, spinga alla riflessione su come vediamo il nostro ruolo nel mondo e i nostri legami con gli altri».

C’è chiaramente uno sfondo spirituale, religioso, dietro al pensiero di Sandel. «Nel mio libro collego la meritocrazia di oggi al dibattito di secoli fa sulla salvezza, se la salvezza è qualcosa che ci meritiamo o che ci arriva dalla grazia divina. Oggi non è una questione di una religione sola. In una società pluralista le persone hanno visioni religiose diverse, molti non hanno nessuna fede, ma credo che tutti possiamo convergere sulla ricerca di un bene comune – conclude –. Credo che una delle cause del vuoto del dibattito pubblico dei nostri tempi è che non affronta le grandi domande morali che dovremmo porci come cittadini. È stato un errore svuotare il dibattito pubblico dalle grandi domande morali, perché senza quelle domande non possiamo avere risposte a problemi come la crescita delle diseguaglianze, il ruolo del mercato, la solidarietà sociale, la giustizia. Avremmo bisogno di un discorso pubblico moralmente più robusto di quello a cui ci siamo abituati».