Opinioni

Coronavirus. Quell’onda lunga delle disuguaglianze

Francesco Gesualdi mercoledì 21 ottobre 2020

Fin dall’inizio si è capito che il coronavirus semina morte soprattutto fra le persone più fragili. E constatato che in Italia il 59% dei casi sono insorti fra gli ultraottantenni, in un primo momento si è pensato che la fragilità dipendesse prevalentemente dalla condizione anagrafica. Ma studi successivi, condotti in varie parti del mondo, hanno evidenziato come l’età avanzata sia elemento di fragilità soprattutto se associata a malattie concomitanti.

Lo testimonia anche l’Italia attraverso i numeri del-l’Istituto superiore di sanità: il 65% dei deceduti da coronavirus soffriva di ipertensione arteriosa, mentre il 28% di cardiopatia ischemica, per intendersi tutte quelle malattie che determinano un insufficiente apporto di sangue e di ossigeno al muscolo cardiaco. Ma a sorpresa si è scoperto che anche il diabete è una patologia ampiamente ricorrente riscontrandola nel 29% dei decessi.

Conferma che viene dalla stessa Organizzazione mondiale della sanità: «Il Covid-19 ha conseguenze più gravi in persone ultrasessantenni affette da malattie polmonari, malattie cardiache, diabete e altre patologie coinvolgenti il sistema immunitario». Il che aiuta a capire meglio un fenomeno osservato soprattutto negli Stati Uniti che a fine settembre contavano 200mila vittime da coronavirus. Anche in quel grande Paese l’età ha avuto un ruolo importante considerato che il 79% dei decessi si è verificato nella popolazione oltre i 65 anni. I dati sono in linea col resto del mondo anche per ciò che riguarda le malattie concomitanti: oltre il 70% dei decessi ha riguardato persone con ipertensione arteriosa, malattie cardiache, diabete e altri disordini metabolici. Ma non torna la distribuzione dei morti per etnia.

Negli Stati Uniti la componente bianca rappresenta il 60% della popolazione, quella nera il 13%, quella latinoamericana il 17%. Tuttavia i deceduti bianchi hanno rappresentato il 52% del totale, mentre quelli neri il 21%, alla pari con i latino americani. Numeri eloquenti, ma che esprimono tutto il loro significato solo se associati a un altro raffronto: i morti di ciascun gruppo in rapporto alla propria popolazione. Facendo questo triste esercizio scopriamo che la componente nera è quella a maggior mortalità con un deceduto ogni mille abitanti, un’incidenza più che doppia rispetto a quella della popolazione bianca, il cui tasso di mortalità si è fermato allo 0, 4 per mille, percentuale ampiamente al di sotto anche di quella dei latino americani attestata allo 0,7 per mille. Dal che se ne deduce che neri e latino americani hanno un tasso di malattie cardiovascolari e metaboliche più alto della popolazione bianca. Ed essendo altrettanto certo che la popolazione nera e latino americana generalmente è più povera di quella bianca, rimane da capire perché i più poveri hanno una maggiore propensione dei ricchi a sviluppare tali malattie.

Molti analisti concordano che la spiegazione vada ricercata negli stili di vita, in particolare nell’alimentazione scorretta e nella sedentarietà. Da un punto di vista alimentare. i più poveri hanno la tendenza a escludere frutta e verdura, generalmente di maggior prezzo, per orientarsi verso il cibo industriale, anche detto junk food, cibo spazzatura, che a causa dell’elevato tenore di grassi, zuccheri e sali, a lungo andare destabilizza l’organismo. Scarse conoscenze, pochi soldi e una vita di corsa sono alla base di modi di alimentarsi insalubri, mentre la tendenza a fare poco movimento, neanche le camminate, è alimentata dalla poca sicurezza esistente nei quartieri poveri e dalla mancanza di zone verdi in cui fare moto senza l’incubo del traffico. Gli inevitabili effetti sono sovrappeso e obesità e, insieme a essi, ipertensione, malattie cardiocircolatorie, diabete. Il sovrappeso desta preoccupazione anche in Gran Bretagna dove il problema riguarda il 64% della popolazione adulta.

Tant’è, ora che ha messo a fuoco quanto possa esso essere letale in caso di malattia da coronavirus, che Boris Johnson ha deciso di lanciare una grande campagna per riportare il popolo britannico al peso forma. Fra le proposte c’è quella di proibire la pubblicità del cibo spazzatura durante le ore di maggiore ascolto della tv da parte dei bambini, di proibirne le promozioni commerciali, di costringere i ristoranti ad accompagnare i menù con l’indicazione delle calorie sviluppate, di incoraggiare i medici a prescrivere l’esercizio fisico. Ma i critici fanno notare che l’unica e vera terapia per sconfiggere il sovrappeso è la lotta all’ignoranza, alle disuguaglianze e alla povertà. Una ricetta buona per ogni Paese del mondo.