Opinioni

Il contributo del magistero al dibattito sui conflitti. Costruire la «pace giusta» il cammino della Chiesa

Pierangelo Sequeri mercoledì 20 agosto 2014
L’evoluzione mentale che attesta il lento spostamento del dibattito mondiale dal problema della guerra giusta al tema di una pace giusta, deve certamente al magistero papale di questi decenni un sostegno e un impulso decisivo. Le apparenze di questi interventi possono imprimere nella memoria del pubblico mediatico la percezione di un carattere estemporaneo dei diversi pronunciamenti. In realtà, la diversità di profilo dei focolai di conflitto è ogni volta coerentemente inquadrata nella sua specificità, proprio ai fini di una efficace messa a punto di una nuova strategia mentale di contrasto alla fatalità del ricorso al modello della guerra, per porre rimedio alla violenza. Il passaggio è certamente irto di difficoltà. Non deve soltanto affermarsi a fronte di una lunghissima inerzia di questo modello, che ha il vantaggio di attingere ad una semplificazione mentale del conflitto, e delle ragioni del conflitto, che ancora lo fanno apparire come una competizione alla quale non ci si può sottrarre, e che  assegna l’onore e la verità al vincitore. Il passaggio deve anche fare i conti con molte paure, non incomprensibili, di rimanere inermi e senza  protezione. E deve dipanare molti equivoci, strumentalizzazioni e ipocrisie: che confondono le acque con interessati giochi di parole, dove i carnefici e le vittime si scambiano i ruoli a seconda delle parti. Sicché si finisce per sospettare anche degli appelli alla pace, come si sospetta della propaganda di guerra. Nonostante tutto questo groviglio, e altro ancora, l’idea della guerra giusta, intesa come strumento normale  per affermare legittimamente i propri interessi (il quale, giustificato dalle sue stesse ragioni, poi giustifica tutto) perde inesorabilmente terreno. La storia del secolo passato – a partire dalla 'inutile strage' della prima guerra mondiale, di un Papa anche questa – gliele ha tolte tutte. La storia recente, poi, sta togliendo ragioni anche alle forme cosiddette non convenzionali della guerra: esse infatti, quale che sia la loro disperata giustificazione, appaiono così fatalmente contigue con le forme del terrorismo, del genocidio, della morte indiscriminata degli inermi, da far pensare che il loro carattere non convenzionale significhi in realtà un passaggio mondiale al puro imbarbarimento dei conflitti. Per non parlare del ritorno alla guerra come strumento, quasi immediato, di gestione di conflitti anche locali, che gli Stati nazionali non possono o non vogliono contenere. Una simile deriva spazza via ogni regola: quella antica dell’arte della guerra come quella della Convenzione di Ginevra. Dopo tutto, nella stessa cultura pre-cristiana (Platone, Aristotele, Cicerone), come poi – a maggior ragione e con maggiore puntiglio di limitazioni – nella elaborazione della dottrina della guerra 'giusta' all’interno del mondo civile-cristiano, il tema era comunque quello dello stato di 'eccezione'. E la discussione riguardava le molte e gravi limitazioni che dovevano rendere accettabile una forma della legittima difesa così grave e così drammatica. Non esiste una giustificazione 'di principio' della guerra. Però, è un fatto che l’inerzia assolutoria della formula, unitamente  all’omologazione del conflitto di interessi (beni e denaro) fra gli argomenti degni di ogni sacrificio, ha finito per avallare la guerra come opzione normale e di principio. Non c’è dubbio, però, che l’inerzia del modello della guerra come figura della giustizia affonda ora, allo sguardo dei popoli – ma ormai, da qualche anno, affonda platealmente in diretta e in cronaca – nella smentita più che provata del suo preteso rapporto fra mezzi e fini (uso della forza per avere il sopravvento, in vista della risoluzione delle contese). Quando Giovanni Paolo II ha proclamato l’avvento di una nuova epoca, con quel suo grido profetico 'Mai più la guerra!' – perché la guerra non risolve nulla, nemmeno i problemi che l’hanno suscitata – egli ha inaugurato la seria determinazione di un percorso irreversibile. Un percorso al quale ora tutte le culture mondiali devono applicarsi, dato che esse stesse hanno accumulato molte e collaudate ragioni per farlo. Il passaggio dalla giustizia della guerra ad una pace giusta non dimentica le sacrosante ragioni della tutela dell’indifeso e della protezione dell’inerme, che ieri rimanevano incistate ambiguamente nell’interpretazione scorretta della giustificazione della forza a difesa del diritto. Non deve perciò sorprendere, ed essere anzi motivo di apprezzamento della serietà della riflessione cristiana, che lo stesso Giovanni Paolo II, abbia introdotto il tema della difesa umanitaria, che contempla l’uso della forza proporzionato al contenimento di un’ingiusta aggressione sterminatrice dell’inerme, e alla tutela del suo diritto alla  sopravvivenza e alla cura. L’appello alla costituzione di un discernimento, di un giudizio e di una decisione internazionale, indica precisamente la via della formazione di un’istanza che deve sbarrare la strada, nei limiti umani, ad un giudizio unilaterale, autoreferenziale, arbitrario. E soprattutto, un’istanza che, a fronte di un preciso orientamento dei popoli alla difesa di un’umanità sulla quale si accanisce lo spirito di distruzione, si mostri impegnato ad escludere il ricorso al modello della guerra, mostrando persuasivamente la migliore efficacia delle strategie di difesa della pace. Delle quali, l’intervento contenitore della forza è appunto la condizione totalmente necessaria e, insieme, del tutto insufficiente. Le altre condizioni, sono appunto quelle messe in luce dalla elaborazione di un vero e proprio diritto della fattiva cooperazione e della solidarietà internazionale dei popoli, nell’orizzonte di una giustizia non solo distributiva, ma in primo luogo umana, culturale, amicale. Leggiamo ora, parola per parola, la precisione millimetrica – filologica, direi – delle battute con le quali l’intervista di papa Francesco ha sigillato questa incredibile accelerazione del magistero cristiano più alto, che ricupera la dottrina tradizionale della legittima difesa nel contesto di un impulso propositivo audace, avanzato, in anticipo sul progressivo – ma ancora incerto – consenso internazionale. Non si tratta solo di portar fuori il tema della legittima difesa dal contenitore semantico obsoleto della guerra giusta. Si tratta anche di non lasciare spazio ad un pacifismo generico e retorico dello 'stare in pace'. L’orrore della normalità con la quale si praticano la crudeltà ('Oggi i bambini non contano!') e la tortura (col pretesto della sicurezza e della deterrenza), indica chiaramente che la soglia è superata. E nessuno può, con nessun pretesto, voltarsi dall’altra parte. L’umanesimo della pace giusta non si sottrae all’impegno di un difficile discernimento, alla fatica di una vigilanza incessante, al sacrificio generoso della presenza e della testimonianza che rischiano di persona, per attestare la persuasività e l’efficacia del perseguimento di mezzi alternativi alla guerra. Sullo sfondo della evoluzione odierna di una vasta sensibilità che deve essere più risolutamente incoraggiata, le sue poche battute sono in realtà l’icona di una composizione assai precisa e accorta della sintesi che il mondo sta cercando e che il cristianesimo – con una determinazione critica e anche autocritica che infine dovrà essere condivisa – ci incalza a trovare. Naturalmente – ma di questo la fede si assume la responsabilità, senza dover chiedere a nessuno – il cristianesimo non rinuncia a rendere la sua speciale testimonianza, che ci custodisce nell’umiltà da tutte le nostre presunzioni. E ci rende tenaci nella speranza che resiste sempre di nuovo alla disperazione. Noi crediamo senza imbarazzo nella preghiera di protezione, e nell’invocazione a Dio per l’illuminazione delle menti e la vergogna dei cuori. Noi crediamo nell’efficacia di una fede che azzarda liberamente la consegna di sé alla prova dell’amore più grande. E anche così rendiamo onore a tutti i nostri fratelli e sorelle – e a tutti quelli che Dio ama, a qualsiasi popolo appartengano – che si proteggono l’un l’altro dal male. E sentiamo di doverci meritare questa testimonianza, noi abitatori di immeritati conforti. Perché ogni volta che un solo essere umano si libera dal male, grazie a Dio, moltissimi altri troveranno il  coraggio di tenerlo lontano.