Il direttore risponde. «Così ho imparato l'umanità e Dio» Nulla mai nasce per pura sottrazione
Caro direttore,
sono sposato da 39 anni. Ci sposammo in chiesa solo per volere dei nostri genitori, da rigidi osservanti dell’«inutilità» del frequentare la chiesa e di vivere la Chiesa. Non avevamo alcuna consapevolezza delle differenza fra cerimonia e Sacramento. Quella venne dopo, grazie a un cammino di adozione intrapreso, dopo anni e tante sofferenze, che ci portò, prima, all’Istituto “La Casa” di Milano e, poi, da un missionario a Bombayo. Quindi incontrammo nostra figlia nella casa di madre Teresa di Calcutta di Vile Parl. È cresciuto così poco a poco in noi un profondo sentimento di gratitudine nei confronti di questa nostra vicenda, del Caso con la “C” maiuscola che ci aveva fatto imboccare quel percorso. E come sovente accade, anche per noi, il Signore ha raggiunto l’uomo mediante l’umanità. Il nostro cammino di fede iniziò così. La nostra, direttore, è una fede che ha una dimensione spirituale, ma che è prima di tutto molto incarnata, perché sofferta nella carne, nelle ossa, nelle fatiche quotidiane di una coppia – allora giovane – che si è vista costretta a rinunciare per forza della natura a un sogno normalissimo: un figlio. Per questo mi è impossibile dissociare Cristo, nostro Signore e vero Uomo, nel nostro cammino di crescita, sia spirituale che umana; perché le due cose coesistono, eccome. Guai, altrimenti, se così non fosse! Vivremmo una fede astratta, fatta di regole, doveri, osservanze distanti dalla nostra umanità. Le scrivo soprattutto perché qualche giorno fa ho assistito a dieci minuti di dibattito su un insegnante sospeso per avere rimosso un crocefisso a scuola. Scelta sua. Ma le confesso che sono stato profondamente infastidito dalle motivazioni addotte da chi – per asserito rispetto di “valori altrui” – crede e afferma che togliere i segni del nostro credere, dei valori della nostra gente e in cui ci rivediamo sia una forma di “rispetto”. Mi è sembrata una forma di prepotenze, per quanto camuffata da tolleranza; e – me lo permetta – anche di stupidità. Come possiamo credere che la rimozione, l’occultamento di un nostro valore possa arricchire chi crede in altro? Se sono sereno e sorrido a una persona che soffre, manco forse di rispetto? Forse che queste stesse persone che dubitano di chi crede – e che sono meno laiche di quanto vogliano ammettere – per rispetto dei “meno abbienti” si privano dei loro averi e li gettano via? Mi sembra, direttore, che parliamo tanto di un valore vero che sempre meno possediamo: il rispetto.
Ruggero Poggianella