editoriale. «Apprendisti stregoni» arabi Così è cresciuto il Califfato
Se gli Stati Uniti – per ammissione dello stesso presidente Obama – hanno faticato a elaborare una linea d’azione per fronteggiare il dilagare della crudele follia jihadista, una delle tragedie del Medio Oriente è che le monarchie del Golfo da anni hanno trasformato in strategia il catastrofico insieme di paure, idiosincrasie e ambizioni che da anni condiziona le loro politiche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mai come oggi la regione è frammentata, con una pluralità di focolai di crisi che ne minacciano l’architettura statuale. Mai come oggi l’islam è diviso al proprio interno, non solo polarizzato fra sciiti e sunniti, ma con lo stesso islam sunnita lacerato fra correnti secolari: l’islam politico dei fratelli musulmani e la crescita del dogmatismo salafita. Mai come oggi le molte minoranze mediorientali sono oggetto di una persecuzione che mira al loro annientamento, in nome di una visione aberrante della religione.
Tanti sono i responsabili diretti e indiretti di questo disastro e, fra questi, spicca il ruolo in negativo di Arabia Saudita e Qatar. Ruolo che abbiamo a lungo sottostimato per molteplici ragioni: questi Paesi erano e sono "alleati" dell’Occidente, un bastione contro l’Iran, che ci ostiniamo a vedere come prima minaccia regionale. La loro liason speciale con Washington ha spesso fatto da schermo alle loro scelte politiche. A ciò si è aggiunta la crisi economica, che ha reso le nazioni occidentali più caute e accomodanti con gli Stati ricchi di liquidità, i cui fondi sovrani erano ospiti graditi da blandire. Per non parlare delle università, per lo più anglosassoni, e gli studiosi lautamente finanziati: non c’è da stupirsi se molti di loro sono diventati afoni dinanzi agli evidenti errori politici dei loro sponsor. Infine, le proteste della primavera araba hanno creato ulteriore spazio di manovra per i Paesi GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo, ossia tutte le monarchie che si affacciano sul Golfo Persico), che si sono tuttavia mossi in ordine sparso, quando non apertamente conflittuale.
Il gigante arabo del Golfo profonde sforzi e un flusso inesauribile di denaro per contrastare due "nemici mortali": l’Iran persiano e sciita e l’islam politico dei Fratelli Musulmani. Per combattere la crescita del ruolo geopolitico iraniano, Riad finanzia da decenni movimenti estremisti anti-sciiti e ha fomentato la ribellione delle comunità sunnite in Iraq e Siria, contribuendo alla polarizzazione e alla frammentazione del Levante. Il suo tentativo di "esportare" la propria dogmatica interpretazione dell’islam (legata al wahhabismo e alla scuola giuridica hanbalita) ha favorito la crescita dei movimenti salafiti sempre estremi. Questi ultimi vengono usati non solo contro sciiti e musulmani liberali, ma anche contro i Fratelli Musulmani, considerati una minaccia mortale. Il terrore di una rivoluzione interna in "salsa islamista" ha spinto l’Arabia a sostenere l’azione dei militari in Egitto contro il fallimentare governo del presidente islamista Morsi, a interferire pesantemente in Yemen e a minacciare il vicino Qatar, gran sostenitore dell’islam politico (come si dirà fra poco). Ma questa sua azione ha anche finito con il favorire il proliferare di gruppi salafiti sempre più attratti dal miraggio del jihad globale, che hanno riversato i soldi e le armi ricevuti da Riad in funzione anti-Assad sulle formazioni jihadiste. Un classico da "apprendista stregone": spaventata dalla violenza dell’incendio che ha contribuito a costruire, ora gli al-Saud hanno vietato ai propri cittadini di combattere il jihad – ma ve ne sono molte migliaia in Siria e Iraq –, cacciato i predicatori filo-jihadisti e ridotto il fiume di denaro che alimenta il fanatismo. All’interno del regno, intanto, vi è uno scontro crescente fra chi ritiene che la cosa migliore sia cambiare politica e cercare un compromesso con l’Iran – per "spartirsi" il Medio Oriente in zone di influenza – e chi invece continua a demonizzare Teheran.
Il piccolissimo Qatar in questi ultimi anni ha perseguito una costante politica di sovra-esposizione e di interventismo. Un emirato di due milioni di abitanti, di cui solo 250.000 qatarioti: tutti gli altri sono lavoratori occidentali strapagati o forza lavoro asiatica e africana priva di diritti. Eppure, Doha ha cercato di porsi come punto di riferimento dell’islam e del mondo arabo, forte di riserve finanziarie eccezionali. In Qatar è nata al-Jazeera, la cui influenza mediatica è enorme; nel 2022 si terranno i mondiali di calcio (sia pure ottenuti con la corruzione); è stato creata una città universitaria che ha attratto famosi studiosi da tutto l’Occidente; l’emiro del Qatar si è proposto – quasi sempre con risultati deludenti – quale mediatore fra fazioni in lotta nei Paesi islamici. Un attivismo ipercinetico e spesso incoerente, ulteriormente cresciuto con la primavera araba, che ha visto il governo di Doha finanziare e sostenere direttamente le varie filiazioni della Fratellanza islamica in tutta la regione, non disdegnando l’aiuto ai gruppi più radicali anti-Assad. Una sovraesposizione che mirava a differenziare il Qatar dagli altri emirati del Golfo e, in particolare, a rendere impossibile quell’Unione politica dei paesi GCC a cui punta l’Arabia Saudita. Ricco di soldi, ma povero di uomini e impegnato su troppi fronti, l’emirato ha finito per portare avanti una politica sconclusionata che ha irritato i propri vicini, al punto che Arabia Saudita e EAU (Emirati Arabi Uniti) hanno minacciato di rompere le relazioni diplomatiche. Anche in Occidente si è finito con il capire i guasti del suo iperattivismo, ben sintetizzati da un documentato libro francese: Il Qatar: un amico che ci vuole male. Al nuovo giovane emiro, Tamim bin Hamad al-Thani, succeduto al padre nel 2013, il compito di portare ordine e di ridurre la frattura con Riad.
Gli altri emirati del Golfo hanno politiche meno visibili, anche se il sostegno dei privati cittadini alle milizie sunnite più violente è ben documentato. Il Paese più saggio è certo l’Oman, forte di una storia che manca agli altri vicini, capace di mantenere buoni rapporti con entrambe le sponde del Golfo, amico dell’Occidente senza apparire anti-iraniano. Il Bahrein, scosso dalle proteste della comunità sciita – maggioritaria ma priva di rappresentanza politica – è di fatto un vassallo dell’Arabia Saudita. Nel 2011, le truppe di Riad hanno imposto l’ordine con metodi brutali e sono i soldi della maggiore monarchia del Golfo che sostengono questo fragile regno, in cui si riversano nel weekend torme di sauditi in cerca di "svago", dato che là vi sono regole meno draconiane che in patria. Non a caso, il ponte che congiunge il Bahrein all’Arabia è noto come il "ponte del peccato". Il Kuwait fatica ancora, a decenni dall’occupazione irachena del 1990, a trovare una propria politica coerente: i Parlamenti sciolti in continuazione dal sovrano, le relazioni pencolanti con i grandi vicini (Iran, Iraq e Arabia Saudita), ma dominate ancora dal risentimento contro Baghdad e dal sospetto verso Teheran.
Gli Emirati sono invece molto più del lusso per turisti e del cattivo gusto che imperano a Dubai. Terrorizzati da possibili rivoluzioni politiche ispirate dai Fratelli Musulmani, premono sul Qatar perché cambi linea e sostengono la politica saudita nella regione. Recentemente hanno abbandonato la loro tradizionale prudenza politica e sono intervenuti platealmente in Libia (pur senza dichiararlo), inviando aerei militari a bombardare le milizie islamiste. Una mossa che sembra più un fatto isolato che parte di una strategia coerente e che ha irritato Stati Uniti e Nato, dato che – oltre a non aver prodotto grandi risultati – potrebbe scatenare pesanti rappresaglie. Qualcuno l’ha visto come un esperimento in vista di futuri maggiori coinvolgimenti regionali. Ma capirne il senso rimane arduo.E arduo resta immaginare come queste monarchie possano spegnere l’incendio che hanno contribuito a alimentare, se non vinceranno le loro ossessioni settarie e politiche. Hanno beneficiato per anni di una condiscendenza occidentale eccessiva, ma non è detto che essa duri per sempre. E tanto meno possono illudersi di essere al riparo dai contraccolpi che la crisi di sicurezza nel Levante irraggia in tutta la regione.