Cosa significa avere radici. Accoglienza, politica, doveri cristiani
Se ne parla anche troppo, si attua fin troppo poco. Eppure una riflessione sull’accoglienza e sui suoi volti penso si imponga all’attenzione di credenti perché, al netto delle polemiche, animi riappacificati possano viverla in maniera autentica. La virtù dell’accoglienza presenta un triplice volto. In primo luogo un volto etico. Si tratta del "Non uccidere!": una delle dieci parole, nella quale si incontrano "legge naturale" e "rivelazione". Una parola che costituisce un appello: "Tu non mi ucciderai!", scritto non su tavole di pietra o su pergamena, ma nel cuore dell’uomo e nel volto della vittima innocente.
E non si tratta solo della morte fisica, che si può infliggere alle persone, bensì di quella morte che possono produrre messaggi e parole di violenza e che annienta l’altro in quanto altro, ossia nella sua diversità rispetto al soggetto e al suo gruppo di appartenenza. Qui è in gioco il riconoscimento dell’umano che travalica ogni schieramento ideologico e ogni appartenenza religiosa.
La virtù dell’accoglienza presenta, poi, un volto politico, e, in quanto tale, interpella la necessità di offrirla in maniera sostenibile. Qui deve esercitarsi l’attività legislativa di Parlamenti e Governi, che sono chiamati a esprimersi in termini di prudenza e al tempo stesso di fedeltà all’umano e alle sue diversificate espressioni. Il fatto che in questi giorni si riproponga il tema del rapporto e del dialogo tra fede e politica è certamente interessante e può essere fecondo, nella misura in cui l’orizzonte etico torni a costituirsi come fondamento dell’azione politica, nel quadro di una "sana laicità".
Infine, ma non per ultimo, il volto evangelico dell’accoglienza che rinviene le sue origini in quello che l’amico e collega Romano Penna, in un suo interessante saggio, ha chiamato «L’amore sconfinato». Qui rinveniamo elementi di profonda riflessione per recuperare le autentiche radici cristiane della nostra identità, anche occidentale ed europea.
La transizione semantica dal verbo agapáo al sostantivo agape risulta oltremodo significativa, anche perché suggerisce una metamorfosi di senso. Si tratta di passare da un piacevole stare insieme di tipo conviviale, a una dinamica di apertura gratuita all’altro, incondizionata e appunto accogliente. All’interno di quest’orizzonte trova la sua collocazione lo specifico dell’amore cristiano, ossia l’amore verso i nemici, che ha del paradossale, rispetto sia al contesto ebraico sia a quello greco e che si fonda sui verbi caratterizzanti i gesti e le parole di Gesù di Nazareth: perdonare/ assolvere e graziare/donare.
Ma tale atteggiamento, umanamente e apparentemente impossibile, può realizzarsi solo se fondato sull’amore di Dio, in senso sia soggettivo che oggettivo. Infatti la pro-esistenza di Gesù si sviluppa innanzitutto nel suo rapporto di amore e di abbandono nei confronti del Padre, che si riverbera nel suo comportamento, a tratti trasgressivo nei confronti di leggi, che possono arrivare a mortificare l’umano (il sabato per l’uomo e non viceversa), verso gli ultimi, compresi i peccatori.
Certo la missione di annunciare questo «amore sconfinato» ha anche una valenza etica e politica, che non possiamo ignorare e che è affidata in maniera peculiare ai fedeli laici, in qualsiasi compagine politica o partitica si ritrovino, ma la predicazione è affidata in particolare agli apostoli, i quali si riservano il compito di tale annuncio allorché affermano: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense » (Atti, 6,2).
Nel momento in cui i vescovi e il Papa richiamano profeticamente il Vangelo dell’amore sconfinato, non fanno che adempiere al loro mandato, anche a costo dell’incomprensione e del dissenso. Ai fedeli laici e agli uomini di buona volontà è affidato il compito di tradurre questo mandato di Gesù nella prassi e nella legislazione del Paese che sono chiamati ad abitare, come lievito e sale di una società, che altrimenti diventerebbe insipida e indifferente, perdendo così le proprie radici.
Teologo, Pontificia Università Lateranense