Opinioni

Disastro afghano e nuova cooperazione. Cosa può fare l'Occidente

Agostino Giovagnoli domenica 22 agosto 2021

Fallimento dell’Occidente? Il ritiro di americani e alleati dall’Afghanistan è stato uno spettacolo miserando e i concreti pericoli che minacciano ora molti afghani, soprattutto donne, sono terribili. Ma c’è troppa retorica nelle deprecazioni contro la scelta di Joe Biden. Come ha detto Angela Merkel, «abbiamo sbagliato tutti». E chi parla di fallimento dell’Occidente ha la responsabilità di dire quale Occidente vuole e per quale Occidente è disposto a spendersi.

Il caso dell’Afghanistan è emblematico delle scelte che non vogliamo fare. Nel 2001 gli Stati Uniti d’America hanno invaso l’Afghanistan (poi si sono aggiunti gli alleati Nato). Motivo: colpire i responsabili dell’attentato dell’11 settembre 2001 alle Due Torri. Ma allora perché una guerra? L’errore fondamentale – in queste ore pochi lo hanno detto chiaramente – è stato compiuto allora da George W. Bush: bastava colpire Bin Laden e i suoi alleati. In ogni caso, se l’obiettivo era quello, si poteva concludere l’occupazione dell’Afghanistan dopo la morte del leader di al-Qaeda, dieci anni fa. Biden lo chiese, ma non si fece. Intanto sono passati venti anni e oggi tutti lamentano che in così lungo tempo non si è realizzato un processo di nation building, in questo caso di "ricostruzione" di uno Stato in grado di resistere al ritorno dei taleban. Perché – è una delle più importanti lezioni di questi anni – per "esportare la democrazia" non basta imporre norme, procedure, elezioni. Non è possibile costruire democrazia senza una classe dirigente e un popolo uniti da valori, interessi e prospettive condivisi; o senza una società in cui le differenze etniche, culturali e politiche siano almeno parzialmente armonizzate; o senza un solido patto tra gruppi diversi che hanno però il senso di un destino comune. Dopo la Seconda guerra mondiale, la democrazia si è potuta affermare in Germania, Italia e Giappone perché c’erano società in grado di accoglierla. Ma gli americani non sono andati in Afghanistan con obiettivi di nation building e lo stesso hanno fatto in Iraq, e non pare che, negli ultimi vent’anni, molte voci in Occidente si siano levate per chiederlo (a parte i cooperanti e le Ong). Del resto, chi, dopo la fine del colonialismo europeo, vuole o può imporre un processo di nation building? Ciò non significa, però, che non ci siano alternative al cinismo del "restare in Afghanistan non è nei nostri interessi" e la pretesa di trasformare l’Afghanistan in un pezzo di Occidente. Altre strade sono, infatti, possibili: il tempo in cui viviamo non è più quello dell’egemonia occidentale nel mondo, ma è un tempo in cui l’Occidente può fare ancora molto.

A tre condizioni: che gli occidentali credano in un progetto comune; che riconoscano, rispettino e dialoghino con le diversità degli altri popoli; e che non si richiudano in se stessi. Si può puntare sul «make America great again» – e la scelta di Biden ha oggettivamente qualcosa di trumpiano non solo per aver completato il percorso tracciato dal predecessore – o sul «prima gli italiani», ma occorre sapere che questa strada conduce all’irrilevanza ed espone a molti pericoli. O si può invece puntare sull’obiettivo non di affermare i propri modelli, ma di far progredire valori universali, compiendo scelte coerenti con tale obiettivo. La prima e la più urgente è quella di accogliere i profughi afghani, seguendo princìpi che consideriamo irrinunciabili (non farlo significherebbe anche perdere molta credibilità internazionale). La seconda è intessere un dialogo anche con popoli e governi lontani dalla sensibilità occidentale, perché ovunque ci sono uomini e donne che cercano le stesse cose che cerchiamo noi – pace, dignità, opportunità, solidarietà… –, senza scandalizzarsi perché i risultati sono parziali, provvisori o incompleti. Davanti a scenari così drammatici, è urgente che si faccia sentire una voce europea davvero unitaria e che si cerchi una cooperazione più larga possibile, senza escludere contatti anche con Cina e Russia, anch’esse preoccupate che si riformi un 'santuario' del terrorismo nel cuore dell’Asia.