Cittadinanza. Storia di D., 12 anni, non italiano. Cosa perdiamo senza questi figli
L’altro giorno sono andata oltre al Vigentino. Milano sud, a trovare la figlia dell’ex bambinaia filippina, che ora ha trent’anni e aspetta una quarta figlia che non s’immaginava di avere, fra molte difficoltà. Gli altri bambini hanno due, quattro e dodici anni. Il grande, D., ha occhi buoni e intelligenti. Fa da mangiare, guarda i fratellini, fa il chierichetto. Sembra un bambino di altri tempi: già adulto, in questa mesta periferia milanese. Vecchie case popolari, scale maleodoranti, ragazzini islamici o orientali che filano in monopattino. Non sento il caro rimbalzare di un pallone nei cortili. Nell’unico bar della via dei vecchi, gli ultimi italiani rimasti, guardano fissi a un monitor alto sul muro, che estrae i numeri di una lotteria ogni cinque minuti. A un tratto una donna si alza di scatto, si avvicina allo schermo, le è sembrato… Ma no, nemmeno questa volta. Gli altri avventori immobili, ipnotizzati dai numeri che scorrono. Ma, dicevo di D. e dei suoi 12 anni. È bravo a scuola, vorrebbe studiare. Nato in Italia, non è italiano, come quasi un milione di figli di immigrati. Non ha la cittadinanza. È, per lo Stato, quasi un corpo estraneo ancora non assimilato. Non so se mi dispiace più per lui, o per noi. Perché lui è intelligente, e ce la farà. Ma noi quanto perdiamo, con questi figli che non riconosciamo? Forse che ne abbiamo molti di figli, noi? Un bambino dai tratti italiani è una rarità, qui a sud del Vigentino – Milano, ma non quella “giusta”. Le donne partono al mattino presto per andare a fare le baby sitter ai figli unici dei milanesi del centro. I loro figli, se riescono, li mandano al nido. La mamma di D. l’anno scorso non ha capito quando iscrivere il terzo figlio di tre anni, che così le è rimasto a casa.
Un anno senza compagni, senza giochi, senza imparare l’italiano. Almeno li accogliessero, li iscrivessero all’asilo di default questi bambini figli di stranieri, senza difficoltà burocratiche. Ci rendiamo conto di quale immenso cantiere trascuriamo? Oltre 800mila bambini e ragazzi. Certo, dicono: dell’Est, cinesi, non figli nostri, o islamici, peggio ancora. Ma se li guardate sciamare fuori da una scuola di periferia alle quattro, quanto ancora sono, semplicemente, bambini: felici dell’aria fresca dopo le ore nei banchi, le gambe che corrono da sole. Nati qui, cresciuti qui. Qualcuno tiene al Milan, conoscono le canzoni di Sanremo. La storia nostra, non credo. Sulla casa di D. una lapide ricorda due ragazzi, partigiani, morti a 17 e 18 anni nel 1945. Chissà se D. l’ha mai letta. Certo non sa di che si parli. Non cittadini, non italiani. Da cosa crediamo di difenderci, negando uno status quo? Li facciamo solo sentire più estranei, e più arrabbiati. Questo straordinario cantiere cui bisogna mettere mano. Con bravi insegnanti, capaci non solo di insegnare la matematica o l’italiano, ma di prendersi cura di questi ragazzini. Di fare caso se un giorno, a tredici anni, non vengono più. Oppure capaci di andare a dire alla madre di quelli come D.: “Tuo figlio è bravo, merita di studiare”. Come accadde a mio padre, di famiglia umile, a Parma, attorno al 1924. Aveva dieci anni e la maestra andò a casa sua a dire: è intelligente, mandatelo alle superiori. Altri mondi, altri evi, altri uomini, e donne.
Non so se quella maestra fosse cristiana o magari comunista, ma ancora aveva a cuore il futuro di quei bambini nei banchi. Lo abbiamo a cuore, noi? O invece, in un mondo di gente che non fa più figli, che importa del futuro? Conta solo il presente, da cui trarre il massimo soddisfacimento. Qui e ora. L’attimo fuggente. I bambini bruni, già a volte un po’ prepotenti, in monopattino nei viali delle periferie, chi incontreranno? Uno spacciatore magari, e allora fra pochi anni li chiameremo delinquenti. Il cantiere certo è vasto e complesso, quanto ci sarebbe da fare, anche magari per insegnanti in pensione: quanto ci sarebbe da trasmettere, prima ancora che da insegnare. In tutto questo, riconoscere la cittadinanza a oltre 800mila figli venuti da lontano sarebbe un primo segno. Un atto dovuto, quasi un debito da onorare – grati anche, perché almeno quei figli ci sono. Credete davvero che non farlo ci salvi da qualcosa? Andate in una maternità di un qualsiasi ospedale di periferia, guardate i neonati nelle culle: su dieci, non più di tre sono italiani. Ci sono stati mandati dei figli. E altro non ci resta che accoglierli, e crescerli, e raccontare loro chi siamo, e la nostra storia. Sempre che ancora ce ne ricordiamo.