Coronavirus. Cosa ci ha fatto il virus? (Se non vediamo speranza)
Domande amare e acute, spingendo il passeggino a Milano Ho netto il ricordo di quando spingevo per Milano, oltre vent’anni fa, il passeggino con il primo, e poi il secondo, e poi la terza figlia. Ricordo bene come tanti per strada, e soprattutto persone anziane, e soprattutto donne, guardassero quei bambini e gli sorridessero, fermandosi, intenerite.
E come si chiama, e quanti mesi ha, e come sei bello, e chissà che bel ragazzo diventerai. E, al mercato, le venditrici dai banchi della frutta gridavano al secondo figlio, entusiaste: «Ciao, bel morettone!». Era una compagnia consueta e familiare quella delle sconosciute per strada, come una cantilena materna che mi seguiva: era un collettivo sentimento benevolo e positivo che percepivo, ogni volta che uscivo. Oggi porto in giro per Milano un nipote di otto mesi. Martino è bellissimo, gli occhi chiari curiosi e splendenti osservano ogni persona che ci passa accanto.
Ma, mi accorgo, la gente in questa città sembra cambiata, dopo i mesi del Covid. Molti vecchi procedono con la maschera alzata fin quasi agli occhi, a capo chino, senza guardarsi intorno. Molti, molte hanno una piega amara sulla faccia pallida di chi non esce quasi mai di casa: quasi si sentissero dei sopravvissuti, e orfani, magari, del compagno di una vita, degli amici più cari. Non si voltano più, le donne anziane, a sorridere a un neonato: è raro, almeno, e questo mi colpisce, quasi una sotterranea mutazione nel nostro sentimento collettivo verso la vita. Come se non fosse una gioia ogni figlio che nasce, come se la vita non fosse più, al di là di ogni circostanza, una cosa buona. Spingo il passeggino e mi domando cosa ci ha fatto il Covid, oltre alla morte disseminata, oltre alla malattia e alla paura.
Che cosa ci ha fatto il Covid, invisibilmente, al cuore? Martino invece, nato nel 2020 – l’anno che il 'New York Times' in un titolo in prima pagina a gennaio definiva «anno da cancellare» – ha esattamente lo stesso sguardo che avevano i miei figli: occhi spalancati in una curiosità fiduciosa, colmi di stupore davanti a ogni volto o cosa nuova. Dal balcone segue meravigliato il volo dei merli, dal divano tende la manina ad afferrare la coda del gatto che gli passa accanto. Sorride alla portinaia, sorride a chiunque gli sorride. I milanesi però, mi accorgo, quanto sembrano cambiati, in una silenziosa metamorfosi, da quest’anno di solitudine e dolore. E tuttavia i bambini del 2020, l’anno «da cancellare», sono come tutti i bambini che scoprono il mondo.
Basta sedersi a un caffè all’aperto e vederli passare, in passeggino, paffuti, ignari, inermi nel sonno, i bambini di sempre. Ma quanto devono essere cambiati interiormente tanti di quelli che hanno i capelli bianchi, per non alzare neanche gli occhi a guardarli. Quasi che il sentimento comune del vivere da questi mesi fosse stato profondamente trasformato. Ciò che non risulterà forse dal Pil o dagli indici della fatica e della ripresa: ma si legge già, netto, allarmante, nel calo dei nuovi nati. Come nell’indifferenza degli sguardi per strada, che non badano agli occhi di uno che, candido, fiducioso, è arrivato da poco e non ne riconoscono la carica potente di speranza.