Opinioni

Coronavirus. Così pandemia e lockdown fanno ammalare la mente

Vittorio A. Sironi venerdì 16 ottobre 2020

Se l’impatto che la pandemia di Covid– 19 sta avendo sulla salute fisica delle persone in tutto il mondo è devastante (più di 38 milioni di infettati e oltre un milione di morti finora), ancora più gravi potrebbero essere gli effetti sulla salute psichica se non si interverrà per prevenire prima piuttosto che curare dopo. La scienza della resilienza studia come le persone resistono alle avversità fornendo dati per offrire soluzioni. Di fronte a eventi traumatici, circa due terzi delle persone mostrano resilienza psicologica, cioè una buona capacità di superare senza troppe ripercussioni sull’equilibrio mentale tali situazioni. Visto il peso dei disagi legati alla pandemia attuale e il grande numero di persone coinvolte, è però possibile ipotizzare che per questa particolare circostanza la ripercussione del Covid–19 sulla salute psichica potrebbe non aderire a tale paradigma e gli esperti temono, e in parte già osservano, uno “tsunami” di malattie mentali postpandemico.

La vita di centinaia di milioni di persone ha subito una rivoluzione di portata e velocità senza precedenti. Inoltre la resilienza individuale è stata ulteriormente complicata dal fatto che questa pandemia non ha colpito tutti nello stesso modo. E’ la prima volta nella storia che vi è stato un lockdown globale protrattosi così a lungo. E altri potrebbero essercene, pur se in forme attenuate. Inoltre l’impatto di questo evento è diverso da quello di altre forme di stress, perché non riguarda solo un settore della vita: le persone devono affrontare problemi nelle relazioni familiari e sociali, sono poste di fronte a sfide finanziarie e lavorative importanti, oltre a quelle relative alla salute propria e dei congiunti. La pandemia ha anche impietosamente messo a nudo le disparità dei sistemi sanitari (che hanno inciso in modo spesso rilevante sul tasso di mortalità) e delle differenti misure economiche messe in campo dai vari Paesi per fronteggiare l’emergenza.

Per medici e infermieri il coinvolgimento emotivo legato alla sofferenza dei pazienti e il sentimento di compassione verso i malati hanno fatto registrare una forte crescita dello stress e dell’insonnia. Affrontare questa sfida offre anche una opportunità di cambiamento psicologico: personale e strutturale, a vantaggio dell’umanità.

L’isolamento, pur necessario per limitare la diffusione della pandemia, è l’elemento che più di altri ha influito negativamente sulla salute mentale e potrà determinare anche in futuro l’insorgenza di squilibri psichici importanti. Da un lato la “sindrome della capanna” (cioè la “resistenza” a uscire da un ambiente protetto come la casa) che ha colpito molte persone, dall’altro la “sindrome di Robinson Crosue”, caratterizzata dall’eccesso di spostamenti di chi si è sentito finalmente “liberato” dalla prigione domestica. Rischi notevoli derivano anche da altri fattori: sfasamento dei ritmi del sonno e dell’alimentazione (con aumento dell’assunzione di alimenti e di alcool), diminuzione dell’attività fisica (non sufficientemente compensata da esercizi domestici), quasi totale scomparsa di rapporti interpersonali diretti (non supportata abbastanza dalle possibilità offerte dagli smartphone e dal web), mutate condizioni di lavoro (smart working).

Negli Stati Uniti, già dopo sei settimane dall’inizio della pandemia, i casi di depressione erano significativamente più alti rispetto a prima. Anche in Italia si è evidenziato un sensibile aumento dei casi di depressione, di ansia e di insonnia, come già verificatosi peraltro con la Sars nel 2003. Malati sicuramente destinati a crescere ulteriormente in futuro. Vi sono poi categorie di persone più di altre coinvolte nei cambiamenti legati al Covid– 19. Gli operatori sociosanitari, medici e infermieri in particolare, si sono trovati ad affrontare in prima linea – soprattutto in alcune aree del Nord Italia – la massiccia ondata di malati durante le prime settimane della pandemia. Spesso esaltati e ammirati come “eroi” per la loro abnegazione, ma anche considerati talvolta come “untori” per il rischio di diffondere il contagio tra familiari e conviventi. Visioni entrambe eccessive, ma che li hanno posti spesso nella condizione di auto isolarsi, di stare per settimane in ospedale o in alloggi lontano da casa.

Molti studi riferiti a situazioni simili al Covid–19 hanno evidenziato i gravi rischi per la salute mentale di questi professionisti. Per i medici stress nel 75% dei casi, depressione e ansia in oltre il 50%, insonnia nel 35%. Il personale infermieristico presentava sintomi più gravi e in percentuali più alte, perché questa categoria è maggiormente a contatto con i pazienti: non solo aumenta per loro il rischio di contagio, ma anche il coinvolgimento emotivo legato alla sofferenza dei pazienti e al sentimento di compassione verso i malati. Anche i giovani hanno avuto la vita quotidiana stravolta dalla pandemia. Relazioni e legami aboliti improvvisamente (nonostante i possibili contatti via web, ma vivendo spesso quella paradossale situazione che è la “solitudine degli iperconnessi”), convivenza forzata in famiglia 24 ore al giorno (con le difficoltà ma anche le opportunità di una “riscoperta” del rapporto tra genitori e figli), abolizione della tradizionale frequenza scolastica (con la nascita di un nuovo approccio educativo attraverso le “lezioni telematiche a distanza”).

Un quadro fosco, ma destinato a presentarsi con tinte meno drammatiche se, con lo sforzo di tutti, oltre che quello fon- damentale dei professionisti della salute mentale, si metteranno in campo risorse umane preziose. E’ importante mettere in atto semplici strategie per il benessere mentale: dormire abbastanza, avere riferimenti routinari quotidiani, fare regolare esercizio fisico, seguire una dieta bilanciata, mantenere forti legami sociali. Aiuta pensare (e realizzare) progetti, anche piccoli, che diano la sensazione di avere uno scopo preciso da perseguire. Molti studi evidenziano che le persone con alti livelli di empatia hanno maggiori probabilità di riuscire a mettere in atto comportamenti appropriati per mantenere un buon equilibrio psichico in situazioni difficili e stressanti. Queste persone devono “fare rete” nei momenti difficili: per fornire un aiuto a chi è più fragile psicologicamente, ma anche per ricevere essi stessi supporto. Come sostengono psicologi e antropologi, la capacità di affrontare gli effetti di questa pandemia non è una questione solo privata (quindi di risorse individuali e di resistenza personale), bensì un fatto sociale (quindi di reazione collettiva e di sostegno comunitaria).

In alcuni giovani al contrario il Covid–19 ha avuto effetti sorprendentemente positivi. Molti adolescenti che, per un disfunzionamento psicopatologico attuavano già un distanziamento sociale e un lockdown relazionale (in particolare i cosiddetti hikikomori, giovani che vivono isolati nello loro camere da letto senza alcun contatto con genitori e amici, perché per loro ogni forma di connessione è avvertita come minacciosa), invece di amplificare in maniera fobica questa condizione per le regole di distanziamento imposte dalla pandemia, sono stati viceversa spinti a sospendere questa loro modalità di vita e ad aprirsi sino a riprendere le relazioni con gli altri. Altri hanno avuto la consapevolezza del momento speciale vissuto e questa li ha portati a porsi domande su loro stessi e a rendersi conto dell’importanza del desiderio di ciò che, prima presente e scontato, allora mancava: gli amici, il contatto fisico, la scuola. Affrontare questa sfida pandemica offre quindi anche una grande opportunità di cambiamento psicologico: personale e strutturale, a vantaggio dell’umanità. Si può intraprendere, con il sostegno comunitario, un percorso per rafforzare i nostri legami familiari e sociali. Si può attuare, con l’ascolto interiore, un’analisi introspettiva per riscoprire il senso della propria esistenza.