Media vaticani. Così la Santa Sede rinnova la sfida della comunicazione
Quando l’8 settembre 1957 Pio XII promulgò l’enciclica Miranda Prorsus dedicata a «cinema, radio, televisione» la stampa dell’epoca tese a evidenziare soprattutto due aspetti: da un lato si rilevò come la 38ª enciclica di papa Pacelli, con le sue circa seimila parole, costituisse uno dei documenti più ampi di tutto il pontificato; dall’altro destò curiosità il fatto che il Papa usasse comunque ricorrere «al latino per occuparsi delle più recenti conquiste del progresso». Si tratta di due sottolineature che lette a 60 anni di distanza aiutano a cogliere alcuni dei caratteri essenziali di quel documento e a collocarlo in una prospettiva di lungo periodo. Giunto quasi al termine del suo lungo pontificato Pio XII decise di dedicare un ampio approfondimento a quelli che apparivano allora i nuovi media, come a compendio del suo largo magistero precedente e di una prassi di coraggiose sperimentazioni pastorali delle tecniche audiovisive. Ma, agli occhi dei giornalisti dell’epoca, l’uso del latino per trattare le più pure espressioni della società moderna, pareva forse plasticamente esemplificare, nel suo intrinseco contrasto tra antico e nuovo, il complesso sforzo di adeguamento della bimillenaria tradizione della Chiesa alle veloci trasformazioni imposte dalle tecnologie della comunicazione.
La Miranda Prorsus rappresentò in effetti una sorta di sintesi dell’impasto tra grandi aperture e posizioni di rigida vigilanza che avevano contraddistinto l’atteggiamento della Chiesa verso i nuovi media, in una sorta di doppia pedagogia in equilibrio tra l’audace incoraggiamento e il severo monito contro un loro uso improprio. Non stupisce dunque che nell’enciclica si possano ritrovare nel contempo tanto i capisaldi dell’approccio essenzialmente pedagogico, «moralizzatore» e strumentale che aveva caratterizzato fin lì un largo tratto del confronto tra la Chiesa e i mezzi di comunicazione sociale, quanto le basi di un percorso di innovazione e modernizzazione che il Concilio Vaticano II avrebbe enormemente accelerato, tracciando nuove coordinate di apertura e dialogo.
Pacelli scrisse la Miranda Prorsus con alle spalle un lungo confronto con lo sfide imposte dai mezzi di comunicazione di massa alla missione della Chiesa, intrapreso sin dal suo approdo ai vertici della Segreteria di Stato nel 1930. Quando Max Bergerre, autorevole corrispondente da Roma dell’agenzia giornalistica francese Havas, scrisse di papa Achille Ratti, Pio XI, che «rimaneva ancora il pontefice inaccessibile» («Pie XI restait encore le pontife inacessible»: Six papes, un journaliste, Paris, 1979, p. 19), lo fece soprattutto perché aveva in mente lo stile di governo del suo successore. D’altronde è opinione concorde tra gli storici definire Pio XII il primo «papa delle masse», per come fu in grado di far viaggiare il suo magistero attraverso le rotte tracciate dai nuovi media in espansione, permettendogli di costruire intorno a sé una popolarità planetaria mai conosciuta fino a quel momento da un pontefice. Pio XII fu il papa della radio (la prassi dei discorsi radiofonici avviata da papa Ratti divenne con lui un vero e proprio genere di divulgazione magisteriale); fu il «papa del cinematografo» (come lo definì programmaticamente 'L’Osservatore Romano' nei giorni del suo avvento al soglio); fu infine il primo papa della televisione (o il primo «viandante di Dio sulle vie dell’etere» come titolò con efficacia «Il Messaggero» in occasione dell’Anno Santo 1950).
D’altro canto questa innegabile apertura di Pio XII ai media, che proprio nei suoi anni di pontificato si consolidavano sulla scena sociale globale, si puntellava su precise basi dottrinarie e si fondava sull’obiettivo chiave del suo ministero di «collegare la dottrina della Chiesa a tutti gli aspetti sociali della contemporaneità» al fine di fondare una «nuova società cristiana». Non a caso è con Pacelli che la Santa Sede nel 1948 inaugurò la prima espressione istituzionale ufficiale dedicata ai nuovi media: quella Pontificia Commissione per la Cinematografia didattica e religiosa, che poi diverrà, già nel 1954, Pontificia Commissione per la Cinematografia, la Radio e la Televisione. In questo quadro, l’utilizzo pratico e il corpus della produzione magisteriale di Pacelli dedicati agli strumenti di comunicazione rivela molto bene la commistione tra un atteggiamento di prudenza ed una volontà di sempre più decisa valorizzazione.
Se già con l’inaugurazione da parte di Pio XI della Radio Vaticana il 12 febbraio 1931 la radio veniva assunta come strumento di evangelizzazione, Pacelli andava oltre, disponendo nel giugno del 1939 che la benedizione attraverso la radio (ad alcune condizioni) potesse far beneficiare agli ascoltatori l’indulgenza plenaria e poi, a partire dal 1940, ammettendo la regolare trasmissione della celebrazione della messa via radio. La comunicazione radiofonica diverrà poi per Pio XII il mezzo privilegiato per la divulgazione planetaria del suo magistero sociale e politico nei grandi tornanti del Secondo conflitto mondiale e della Guerra fredda: è con i grandi messaggi radiofonici pasquali e natalizi che durante la guerra Pacelli invoca il ritorno del governo di Dio nella società; e nel dopoguerra è anche con l’importante radiomessaggio del 24 dicembre 1948 che il Papa manifesta la sua opposizione al comunismo e non esclude l’ipotesi della partecipazione dell’Italia ad un’alleanza militare.
Anche le nuove frontiere aperte dal mezzo televisivo furono da lui sperimentate con un approccio dinamico. È noto il pionieristico interessamento della Santa Sede ad un utilizzo pratico del nuovo mezzo: un primo momento si registra infatti in occasione del Giubileo del 1950 – ben quattro anni prima dell’inizio di un regolare servizio televisivo in Italia – quando il governo francese fece dono al pontefice di una stazione televisiva che sarà collocata nell’area di Roma e del Vaticano. Nel complesso Pio XII tenne però un atteggiamento ambivalente verso la televisione: nell’esortazione apostolica I rapidi progressi pronunciata in occasione dell’avvio delle trasmissioni Rai nel gennaio 1954 sottolineava come il medium audiovisivo se «ben regolato» potesse «costituire un mezzo efficace di saggia e cristiana educazione»; tuttavia secondo il Papa occorreva non sottovalutare i pericoli che la televisione nascondeva, «pericoli tanto più gravi, quanto maggiore» era «la potenza suggestiva di questo strumento e quanto più vasto e indiscriminato» era il pubblico a cui esso si dirigeva.
Ma è attraverso l’attenzione al cinema che probabilmente più si chiarisce l’evoluzione degli orientamenti di Pio XII verso i mass media. Non va dimenticato che, già negli anni 30, nel suo ruolo di Segretario di Stato, egli ebbe un ruolo di primo piano nella redazione dei due testi che più caratterizzarono il magistero del suo predecessore verso la settima arte. Un magistero impostato su un atteggiamento prevalentemente difensivo. Fu Pacelli a scrivere nel 1934 la lettera al canonico Abel Brohée, presidente dell’Ocic, che venne allora considerata la magna charta dell’attività dei cattolici in campo cinematografico; e fu il futuro pontefice a gestire il processo redazionale dell’enciclica Vigilanti cura del 1936, curando in particolare i delicati rapporti con l’episcopato americano. Durante i suoi diciannove anni di pontificato, Pio XII tornerà poi in diverse occasioni sulla materia cinematografica, sia con discorsi (otto tra il 1941 e il 1949) sia con lettere encicliche, quali la Sacra virginitas del 1954.
È però attraverso i Due discorsi sul film ideale (1955) che si rende chiaro il graduale avanzare in seno alla Chiesa, di più marcate esigenze di dialogo ed apertura nei confronti del cinema. Tutto ciò rivela la sintonia con una più generale tensione conoscitiva orientata alla comprensione di uno scenario politico e antropologico che mostrava i tratti di una radicale trasformazione. I due pronunciamenti magisteriali si configurarono infatti come «il tentativo più aperto e generoso di fornire alla coscienza del cristiano un quadro dottrinale e pastorale sistematico che gli consentisse di individuare egli stesso lo spartiacque tra il cinema capace di favorire la crescita dell’uomo e il cinema che rischia di compromettere lo sviluppo spirituale». E dunque i Due discorsi marcano un momento di trasformazione nell’atteggiamento della Chiesa che da difensivo si fa propositivo. È la prima volta infatti che non si attivano comunicazioni prettamente interne, ma rivolte all’intera società, attraverso l’intelligente e innovativo utilizzo di un codice comunicativo non più circoscritto in una dimensione morale e censoria. E nella scia di tali insegnamenti e prassi sempre più vigorosamente assunte da Paolo VI e dai suoi successori che si inscrive la riforma del sistema comunicativo della Santa Sede voluto da papa Francesco che sta muovendo i suoi lenti ma decisi passi.
* Prefetto della Segreteria per la Comunicazione