Demografia. Così la bomba della denatalità sta sconvolgendo l'economia
La questione della natalità è – almeno a parole – al centro dell’agenda di governo. Ma quando l’avere figli è diventato un fatto pubblico? È solo una questione di grandeur demografica oppure da quanti bambini nascono ogni anno dipende anche la qualità della vita di quelli già nati e cresciuti? Insomma, qual è la relazione tra economia e natalità? La scienza economica ha studiato sin dal suo inizio il rapporto tra crescita economica e crescita demografica, cercando di comprendere come questi due aspetti siano correlati e come possano influenzarsi reciprocamente.
Thomas Malthus – professore di economia politica già alla fine del ’700 – è passato alla storia per la sua teoria di come le risorse agricole disponibili, che tendono a crescere linearmente nel tempo grazie al progresso tecnologico, non possano soddisfare le esigenze della crescita della popolazione che invece ha un andamento esponenziale, implicando quindi il sovvenire di periodiche carestie. La teoria malthusiana metteva in guardia sul pericolo di una crescita demografica incontrollata e suggeriva il controllo delle nascite come una soluzione per evitare il sovraffollamento e la povertà. Nel 1968, Paul R. Ehrlich, uno dei leader del Club di Roma, nel suo libro The Population Bomb riprese la teoria Malthusiana, mettendo l’accento sulla questione ecologica e sulla limitatezza delle risorse del pianeta e concludendo sulla necessità di adottare politiche di controllo delle nascite per prevenire una catastrofe ambientale e sociale. Queste teorie ebbero un’influenza enorme per l’affermazione di politiche di controllo delle nascite come avvenne in Cina con l’adozione della politica del figlio unico del 1979.
Ma non sono le uniche teorie economiche sul rapporto tra crescita demografica ed economia: ne citiamo almeno altre due che hanno predizioni opposte. Nel suo famoso modello di crescita economica, Robert Solow (1956) mostrava che se la popolazione cresce troppo rapidamente l’economia non fa un uso efficiente del capitale fisico (macchinari, attrezzature), diventa troppo dipendente dal fattore lavoro ( labor intensive) e la sua crescita economica ne risente negativamente. Ancora una volta, la crescita demografica come potenziale fattore negativo per la crescita economica. Al contrario, Gary Becker (1999) sviluppò la teoria neoclassica dell’investimento in capitale umano, sottolineando come nelle economie urbane ad alto reddito la crescita della popolazione acceleri la crescita per effetto dei rendimenti crescenti di una maggiore specializzazione e per le economie di scala e scopo che si ottengono quando molte menti sono messe a lavorare in prossimità tra loro.
Rispetto ai problemi della crescita demografica oggi la prospettiva e le priorità sono del tutto ribaltate; il dibattito si concentra sulla denatalità e sulla decrescita demografica. Molti paesi sviluppati affrontano da tempo una diminuzione della natalità e un’inversione della piramide demografica, con una popolazione sempre più anziana, e alcuni di questi paesi sono già in una fase di declino demografico. Gli economisti si sono fatti trovare impreparati a queste nuove sfide perché appare del tutto evidente che non basta semplicemente invertire il segno di qualche variabile nei modelli sviluppati in precedenza. I problemi posti dalla decrescita demografica sono nuovi e differenti rispetto a quelli posti dalla crescita. Anche l’“Economist” se n’è accorto, occupandosi ripetutamente del tema nell’ultimo anno (si veda la copertina del numero del 1 Giugno). In attesa di una vera e propria teoria, è possibile già elencare alcune aree dove l’impatto della denatalità è già osservabile empiricamente.
Consideriamo per primo l’impatto della denatalità sulle imprese e sulle attività produttive. La riduzione della popolazione comporta una diminuzione della domanda interna con conseguente perdita degli effetti delle economie di scala, della profittabilità e quindi dell’ammontare degli investimenti delle aziende che si dedicano prevalentemente al mercato domestico. Questi effetti negativi possono essere contrastati da un maggior orientamento all’export delle imprese anche se nel medio lungo periodo anche la domanda estera è destinata a soffrire degli stessi problemi. La lente della denatalità ci offre una nuova lettura dei problemi dell’economia italiana degli ultimi 30 anni: della stagnazione della domanda interna che ha imposto un faticoso riorientamento all’export della manifattura italiana si è spesso incolpato l’euro e l’eccessiva tassazione, ignorando nel dibattito il ruolo della natalità.
Dal lato dell’offerta di lavoro, meno persone e più anziane significano certamente più alti costi del lavoro e minor tasso di innovazione delle imprese. Anche in questo caso la lente della denatalità getta una nuova luce sulle discussioni degli ultimi due anni circa la difficoltà nel reperire il personale necessario per tanti lavori precedentemente svolti da giovani (personale del turismo, stagionali) e per i quali si è tirato in ballo il Covid e la great resignation e il reddito di cittadinanza. Il declino del tasso di innovazione delle imprese italiane è invece un fenomeno più risalente ma altrettanto evidente che vede le imprese italiane concentrate anche con successo in settori industriali più tradizionali (alimentare, automobilistico con motore a scoppio etc.) e assenti nei settori legati al digitale, all’intelligenza artificiale, alle biotecnologie e cosi via. La denatalità e l’aumento del numero di persone anziane possono influenzare anche la ricchezza delle famiglie. Secondo dati del 2021, la ricchezza netta delle famiglie italiane ammontava a 9.743 miliardi di euro, di cui il 54% rappresentato da investimenti immobiliari. Ma gli immobili hanno valore soltanto fino a quando ci sono persone interessate a usarli: con la diminuzione delle nascite, la domanda abitativa è certamente destinata a declinare e di conseguenza il valore degli immobili ed il risparmio delle famiglie. Il fenomeno delle case a un euro – che interessa molti piccoli comuni delle aree interne dove lo spopolamento ha prodotto un eccesso di patrimonio immobiliare che non riesce ad essere allocato a prezzi di mercato ma che si sta rapidamente deteriorando – è solo l’avvisaglia dei tempi che arriveranno e che vedranno il prezzo degli immobili mantenersi stabile solo in pochissime aree privilegiate attorno ai grandi centri.
La denatalità pone infine sfide imponenti alle finanze pubbliche. Da un lato, la spesa pubblica per scuola e famiglia che già oggi comunque rappresenta pochi punti percentuali del totale finirà per ridursi ulteriormente a causa della diminuzione del numero di bambini, ma, dall’altro, i costi legati alle pensioni e alla sanità – che già costituiscono la fetta più corposa del bilancio pubblico – aumenteranno ulteriormente a causa dell’invecchiamento della popolazione. Senza correttivi di sorta questa situazione potrebbe comportare un aumento del rapporto debito/Pil e richiedere il rialzo delle tasse per mantenere lo stesso livello di infrastrutture e servizi pubblici. La denatalità tocca anche il tema delle infrastrutture: infatti il Paese è dotato di infrastrutture (strade, acquedotti, reti fognarie e di illuminazione pubblica e così via) dimensionate per una data popolazione e per le quali sostiene dei costi fissi di manutenzione. La diminuzione della popolazione comporta la necessità di ripartire questi costi fissi su un numero di contribuenti via via inferiore con inevitabile necessità di aumentare le tasse (o di ridimensionare le infrastrutture).
Per chi ancora si domanda perché un governo si debba occupare di natalità valga la considerazione che l’inverno demografico sta già avendo un impatto significativo e avverso sull’economia delle imprese, sulla salute finanze pubbliche e sui risparmi delle famiglie. Affrontare queste sfide richiederà un’analisi approfondita, politiche pubbliche lungimiranti e innovazione economica per garantire una crescita sostenibile e una prosperità a lungo termine.