La notizia ha colpito l’Argentina come un pugno in pieno petto. Il 3 maggio, le autorità messicane hanno intercettato a Puerto Progreso, nello Yucatán, un cargo con 2.360 litri di cocaina liquida, una delle ultime modalità per occultare la sostanza. A sorprendere non è solo l’enorme quantità di droga, ma la provenienza dell’imbarcazione: Buenos Aires. Il redditizio carico è stato spedito da
César Cornejo Miranda, chimico messicano agli ordini del cartello di Sinaloa, a cui era destinata la 'merce'. Che cosa aveva spinto l’organizzazione di
Joaquín 'El Chapo' Guzmán – arrestato il 22 febbraio 2014 – tanto lontano dal proprio epicentro messicano? Come mai aveva scelto l’estremo Sud del Continente, dove non vi sono piantagioni di coca né di marijuana? Il sequestro ha catapultato sulla ribalta internazionale un fenomeno rimasto troppo a lungo sotto traccia: la penetrazione dei narcos messicani in territorio argentino. Come un cancro, i cartelli hanno esteso le loro metastasi nel mondo, dall’Australia all’Italia, con una presenza stabile in 56 Paesi. Nella 'divisione criminale' del lavoro, le narcomultinazionali utilizzano i differenti Stati come base di produzione, coltivazione, corridoio, mercato. Non tutti 'partecipano' in egual misura, per posizione strategica, condizioni strutturali, pressione delle autorità. Da periferia dell’industria del narcotraffico, l’Argentina è diventata, negli ultimi anni, un fondamentale centro di produzione di cocaina e pasticche. E un prezioso trampolino di queste ultime verso l’Europa. Da tempo la Chiesa e le organizzazioni civili, laiche e cattoliche, hanno lanciato l’allarme. E, di recente, papa Francesco, in un’e-mail all’amico e attivista Gustavo Vera, si è detto preoccupato.
E lo ha ribadito nell’intervista rilasciata al giornale «La Cárcova News», nella quale ha dichiarato che «la droga avanza, non si ferma. E quello che mi preoccupa di più è il trionfalismo dei trafficanti». I cartelli messicani hanno iniziato la penetrazione a Buenos Aires e dintorni nei primi anni Duemila, spinti dalle necessità di rifornirsi di efedrina, componente chimico indispensabile per la creazione di metamfetamine e la trasformazione della foglia di coca in cocaina. In Argentina, i vincoli all’importazione della sostanza dall’Asia erano scarsi. Spesso solo teorici. Le aziende farmaceutiche ne potevano acquistare grandi quantitativi, senza rendere conto dell’utilizzo. Facile per i narcos confondere le loro imprese mafiose con quelle legali. Quando nel 2006, l’allora presidente Felipe Calderón ha bandito l’efedrina in Messico, i 'signori della droga' hanno intensificato gli affari nella piazza argentina. Trasformando, attualmente, il Paese nel terzo fornitore mondiale del componente. L’atteggiamento dei governi Kirchner – Néstor e Cristina – su tale questione è stato ambivalente. Come ha dimostrato Daniel Farah, del International Assessment and Strategy Center, entrambi i leader hanno ricevuto ingenti finanziamenti pubblici per le rispettive campagne elettorali – quasi un terzo del totale – dall’industria medico-farmaceutica. Il che – sostiene Farah – li avrebbe indotti, in un primo tempo, a una certa tolleranza verso l’importazione di precursori chimici, fondamentali per la produzione di medicinali. Un Far West di cui i cartelli messicani – in particolare quello di Sinaloa – hanno approfittato: i megalaboratori clandestini per la creazione di pasticche, chiamati 'cocinas', si sono moltiplicati. Nel 2008, però, lo scandalo per la scoperta di una 'maxi cocina' nella provincia di Buenos Aires e l’omicidio di tre vertici dell’industria del farmaco che la rifornivano, ha costretto l’esecutivo a imporre limiti. Fino al 2010, l’importazione di efedrina è calata passando da 22,5 tonnellate a 11,8. Poi, però, ha ricominciato a crescere. Tanto che, nel 2011, fonti dell’anti-droga locale hanno rivelato un lungo soggiorno di 'El Chapo' nel Paese. L'Argentina, però, è anche un centro di produzione della cocaina. Un apparente paradosso, dato che la coca non vi cresce: le piantagioni sono concentrate in Perù, Colombia e Bolivia. Con quest’ultima, l’Argentina condivide oltre 700 chilometri di frontiera, particolarmente permeabile. Gli scarsi controlli lungo il confine, da sempre, hanno consentito al contrabbando di prosperare. Ora, insieme alle merci contraffate portate nei modi più impensati dai cosiddetti 'bagayeros' (trasportatori)', passano in media 1.300 tonnellate all’anno di foglie di coca. La stessa quantità entra dal versante paraguayano, Paese quest’ultimo di transito per la coca peruviana e colombiana. In Argentina, le foglie vengono sottoposte ad un complesso processo chimico – in buona parte a base di efedrina – e trasformate in 'polvere bianca'. Da lì, quest’ultima prende la via dell’Europa. Via mare, occultata nei cargo, o via aerea: fonti dell’anti-droga Usa parlano di oltre 500 piste di decollo clandestine. I narcos messicani hanno le infrastrutture per garantire il 'trasferimento' della coca oltreoceano. Le risorse non mancano ai cartelli: in Europa una tonnellata moltiplica il suo valore fino a raggiungere i 100 milioni di euro, tra i 50 e i 100 euro a dose. Prezzi impensabili in Argentina. Da qui la scelta di non puntare sul 'mercato interno'. La droga, però, come scrive il giornalista ed esperto di narcotraffico,
Gustavo Sierra, è come un camion carico di mattoni: dove passa, lascia polvere. Gli scarti della produzione della coca – il cosiddetto 'paco' –, invendibile nel Nord del mondo, viene smerciato a bassissimo costo fra i disperati delle baraccopoli, dove spesso vengono nascoste le 'cocinas'. Con effetti devastanti: bastano poche per trasformare un adolescente in zombie. Emarginazione, miseria, rabbia fanno, però, fanno decollare il consumo nelle 'villas'. E la 'moda' sta contagiando anche i quartieri residenziali. I giovanissimi, inoltre, sono reclutati come bassa manovalanza, i cosiddetti 'perros', baby spacciatori. Ad occuparsi del commercio interno sono i gruppi criminali locali, utilizzati come 'base d’appoggio' dalle grandi organizzazioni che, al contrario, si occupano del business transoceanico. Edgardo Buscaglia, analista della Columbia University, sostiene che nel Paese operano una quarantina di mafie straniere, tra cui spiccano i narcos messicani. Ad attrarre questi ultimi – afferma Buscaglia – è la corruzione diffusa, la fragilità istituzionale e l’alto livello di impunità patrimoniale. Fin dagli anni Novanta – l’era del controverso presidente Carlos Ménem –, i capitali dei narcos sono affluiti in massa approfittando del processo di liberalizzazione selvaggia e della dollarizzazione. I soldi sporchi si sono infiltrati nell’economia legale, attraverso le 'zone grigie'. Da allora vari esecutivi si sono susseguiti, la situazione, però, non è cambiata. In Argentina non ci sono unità specializzante nelle indagini patrimoniali e finanziarie. I vuoti hanno fatto prosperare l’impunità, trasformando il Paese – dice Buscaglia – in un 'polo di sviluppo' del narcotraffico. Nel 2013, il Dipartimento di Stato americano aveva allertato le autorità locali. Queste ultime, però, nonostante la promessa di intensificare la cooperazione con l’agenzia antidroga Usa - con cui, per altro, i rapporti sono conflittuali - ha minimizzato l’allarme. Lo stesso avevano fatto l’anno precedente, quando i vescovi hanno pubblicato un documento dal titolo «Il dramma della droga e del narcotraffico». «L’Argentina sta correndo il rischio di oltrepassare il punto di non ritorno», ha detto, in quell’occasione, il vescovo Jorge Lozano, presidente della Commissione per la Pastorale sociale. «Lo Stato metta il narcotraffico in cima alle sue priorità», aveva chiesto il presidente della Conferenza episcopale argentina, José María Arancedo. Finora, però, non sembra averlo fatto.