La risposta di Doha alla crisi. Così il Qatar si è risollevato dopo sei mesi di embargo
(Ansa)
Dallo scorso 5 giugno, il sultanato del Qatar è oggetto di un embargo di tipo economico e politico da parte di Arabia Saudita, Egitto, Emirati arabi uniti e alcuni alleati minori, fra cui Yemen, Isole Maldive, Bahrain. Un blocco di Paesi che accusa Doha di intrattenere relazioni ambigue con l’Iran e di sostenere svariate organizzazioni jihadiste, contribuendo alla destabilizzazione dell’area Mena (Nord Africa e Medio Oriente, ndr). Ma sei mesi di isolamento non solo non hanno convinto Doha a soddisfare le 13 richieste formulate dai suoi accusatori – fra cui chiudere la controversa emittente al-Jazeera – ma hanno fatto del piccolo emirato, che certo di amicizie pericolose ne ha, una vittima. L’ennesimo ostaggio del braccio di ferro fra Riad e Teheran. I Saud lo sanno e minimizzano. A proposito della crisi non ancora rientrata, il principe ereditario Mohammed Bin Salman (sui media arabi indicato come MbS) ha dichiarato di recente: 'Il Qatar è una questione di pochissimo conto'. Da mesi MbS evita l’argomento sia con i mezzi di comunicazione sia nelle visite ufficiali di alto livello diplomatico.
Al pari dell’interventismo bellico in Yemen, la scelta di mettere in un angolo Doha non ha centrato gli obiettivi prefissati, cioè obbligare il piccolo sultanato, giudicato troppo indipendente in seno al Consiglio di cooperazione del Golfo, a comportarsi da Paese satellite dell’Arabia Saudita, frenando nel contempo l’ascesa dell’Iran. O forse addirittura creare un casus belli per andare allo scontro diretto con Teheran, sempre rimandato. Nuove rivelazioni giornalistiche, intanto, aiutano a comprendere meglio la 'partita' qatariota: secondo quanto reso noto dalla testata anglofona The Intercept - entrata in possesso di e-mail riservate fra diplomatici emiratini a Washington e strateghi di una banca privata con base in Lussemburgo e proprietà anglosassone - ben prima dello scoppio della crisi politica, Abu Dhabi avrebbe ipotizzato di generare artificiosamente una débacle finanziaria in Qatar, odiato avversario regionale. Secondo il piano, mediante la manipolazione dei titoli di Stato e delle riserve di valuta estera, con conseguente caduta libera del dinaro qatariota, gli Emirati avrebbero messo in ginocchio il rivale acquisendo il controllo di asset strategici e mercati energetici. Si ricordi che Qatar e Iran condividono il giacimento di gas più grande al mondo (North dome-South Pars) e che Doha è il maggiore esportatore di Gas naturale liquefatto in assoluto, con 77 milioni di tonnellate all’anno.
Ad oggi, non risultano patenti speculazioni sui titoli di Stato qatarioti né sulla valuta nazionale. Indubbiamente, però, l’economia del sultanato ha ricevuto un forte scossone nell’ultimo semestre, con perdite in termini commerciali, turistici, finanziari. Per tamponare l’emorragia, Doha ha disposto il ritorno in patria di 20 miliardi di dollari investiti sui mercati esteri. Significativo il danno per Qatar airways: la compagnia di bandiera non solo ha perso l’11% delle proprie rotte (325 voli in meno a settimana da e verso i Paesi 'accusatori') e il 20% delle entrate, ma ha visto sfumare l’annunciato matrimonio con American airlines. L’aeroporto internazionale Hamad perde 200 milioni di dollari a settimana. Tuttavia, è dalle peggiori crisi che talvolta nascono ottime opportunità: all’inizio di novembre, Qatar airways ha acquisito il 9,6% di Cathay pacific, compagnia cinese di Hong Kong, diventandone uno dei maggiori azionisti. Ed ecco il punto cruciale. Finora, l’embargo ha sortito un solo effetto inequivocabile: il Qatar guarda più che mai verso Est. E così, dopo decenni di dipendenza da Emirati e Arabia Saudita per l’80% del proprio fabbisogno alimentare, ora lo scenario è cambiato: approfittando di agevolazioni fiscali e supporto governativo agli investimenti stranieri, i grandi produttori indiani, iraniani e turchi si preparano a delocalizzare nel sultanato e a sfruttare le nuove rotte marittime commerciali dal Qatar verso India e Oman, messe a punto in piena emergenza con navi cargo danesi (Maersk), per esportare le loro merci. Anche da parte di Pakistan e Cina si registra un inedito interesse per le opportunità di business in Qatar.
Nell’attesa di raggiungere una maggiore autonomia produttiva, Doha volge lo sguardo a Oriente per approvvigionarsi di metalli, minerali lavorati, prodotti meccanici, agroalimentari, chimici, cioè tutto ciò che acquistava dai partner arabi. Le relazioni diplomatiche vanno di pari passo: a fine estate, il ministro degli Esteri qatariota ha reso noto il ritorno a Teheran del proprio ambasciatore, ritirato nel gennaio del 2016 (dopo l’attacco subito dall’ambasciata saudita in loco, a seguito dell’impiccagione dello sheikh sciita al-Nimr, detenuto in Arabia Saudita), in virtù di legami rafforzati fra i due Paesi dirimpettai. A fine ottobre ha fatto seguito l’annuncio della nascita di un comitato congiunto sugli scambi commerciali: i tecnici di Qatar e Iran lavoreranno assieme al miglioramento dei trasporti via mare e aria. Quanto ai rapporti con Ankara, da anni su di essi splende il sole. Se fra Doha e Teheran è l’aspetto economico a 'riscaldare' l’amicizia, con Ankara il fattore ideologico è basilare: Turchia e Qatar hanno supportato la Fratellanza musulmana in Egitto e tutte le componenti islamiste radicali sunnite nei vari teatri Mena, in primis in Siria e in Libia. Non a caso, dunque, la Turchia ha scelto il Qatar come sede della prima base aerea militare all’estero (2015). E ora Ankara e Doha lavorano alla realizzazione compartecipata di un gasdotto che colleghi i ricchi giacimenti di gas del Golfo fino al Mediterraneo. Anche il turismo trae vantaggio da tale alleanza: i visitatori turchi in Qatar aumentano a tale ritmo (+11% nei primi 10 mesi del 2017 rispetto al medesimo periodo del 2016) che l’Ente nazionale del turismo qatariota si prepara ad organizzare corsi di lingua turca per gli addetti ai lavori.
Il blocco anti-Qatar, comunque, non pare intenzionato a tornare sui propri passi: l’accerchiamento continua, ma lontano dai riflettori mondiali, al momento puntati sulla questione libanese. Gli effetti sociali delle misure restrittive non mancano. È la stampa britannica a darne conto con maggiore continuità. È noto che, nelle settimane successive alla proclamazione dell’embargo, a tutti i cittadini qatarioti residenti nei Paesi del blocco è stato ordinato di ritornare nel sultanato d’origine. Meno risaputo, invece, è che a emiratini, egiziani, sauditi residenti a Doha è stato imposto ugualmente di tornare a casa, pena la perdita della cittadinanza. Nei casi più clamorosi, ai pazienti qatarioti curati nelle cliniche saudite, anche minorenni, è stato sospeso qualsiasi trattamento, con obbligo di rimpatrio immediato. E così, a cascata, con applicazioni a tutti i livelli: le tribù beduine qatariote allevatrici di cammelli sono state costrette ad abbandonare i territori sauditi nell’arco di 36 ore, con migliaia e migliaia di capi appresso. I confini sono sigillati: a chi cerca di varcarli oppure lo fa inavvertitamente si spara addosso. La crisi del Qatar ha riflessi significativi anche sulle libertà fondamentali: negli Emirati arabi uniti, esprimere sui social media simpatia per il Qatar o anche soltanto perplessità per l’embargo in vigore può costare caro, fino a 15 anni di detenzione e centinaia di migliaia di dollari di multa. Peraltro, lo sbarramento è pure di natura religiosa: ai pellegrini qatarioti è vietato l’accesso a Mecca e Medina.
È probabile che l’impasse politica qatariota non trovi soluzione a breve termine, surclassata com’è da altri focolai di tensione, ma Doha sembra avere il coltello dalla parte del manico: nella prima settimana di novembre, a sorpresa, l’ex primo ministro del Qatar, sheikh Hamad bin Jassim bin Jabr al-Taniv, nel corso di un’intervista tv, ha ammesso che in Siria i jihadisti, fin dall’inizio della crisi nel 2011, sono stati armati e guidati dagli Stati Uniti, dell’Arabia Saudita, del Qatar e dalla Turchia. Al-Thani ha detto che Doha possiede documenti ufficiali che confermano le sue parole. Ora tocca a Washington decidere come e quando mettere a tacere la gola profonda del Golfo, più pericolosa oggi di sei mesi fa.