La guerra della droga. Omicidi e violenze: la stampa sottomessa dai «narcos» messicani
Sergio Martínez stava facendo colazione nel solito ristorante di Cacahoatán, cittadina all’estremo sud del Chiapas quasi al confine con il Guatemala, quando i proiettili l’hanno colpito. Il 47enne è morto sul colpo mentre il commando usciva dal locale senza che nessuno cercasse di fermarlo. Era il 3 ottobre. Undici giorni prima, sempre in Chiapas, la stessa sorte era toccata a Mario Gómez, ucciso mentre usciva dalla sua casa di Yajalón, in Chiapas. Entrambi erano giornalisti. Martínez, in realtà, aveva lasciato da tempo il quotidiano Enfoque ma continuava a informare attraverso il suo blog. Gómez, invece, continuava a lavorare per l’Heraldo del Chiapas. Con le loro morti, sono diventati già undici i reporter assassinati da gennaio in Messico, il Paese più sanguinoso per la stampa dopo l’Afghanistan. L’anno scorso, con altrettanti giornasti ammazzati, aveva avuto il tragico primato assoluto. Dal 2007 sono 70 i giornalisti uccisi, più di venti quelli desaparecidos, l’ultimo, Augustín Silva Vásquez, è scomparso il 21 gennaio, nell’Oaxaca. La maggior parte proviene da “zone silenziate”. Non solo epicentri della narco-guerra che, da undici anni, dilania il Messico, con un bilancio - per difetto - di almeno 255mila vittime. Sono “pezzi di nazione” in cui la lotta fra organizzazioni criminali, con il sostegno di interi pezzi di istituzioni precedentemente 'catturate', uccide l’informazione. Oltre al singolo giornalista.
Ben prima che la questione “fake news” entrasse nel dibattito globale, i narcos hanno colto l’importanza dell’informazione come “arma di guerra”. E l’hanno impiegata. La conquista dei mezzi di comunicazione è andata di pari passo a quella dei poteri politici e delle polizie dei territori presi in ostaggio dai differenti gruppi. Cresciuti nel corso del Novecento all'interno di uno Stato che si illudeva di poterli controllare, i narcos sono diventati ormai vere e proprie multinazionali del crimine, i cui guadagni concorrono con il Pil di varie nazioni. La loro “area di influenza” copre almeno un terzo del territorio messicano. La strategia di colonizzazione può essere più o meno cruenta e palese, a seconda della banda. Tutte, però, hanno messo a punto un apposito metodo di “gestione” dei media. Con un obiettivo preciso: trasformarli da mezzi di informazione a strumenti di disinformazione. Ci sono riusciti in dieci Stati. Il resto della nazione è definito da Reporter sans frontiers (Rsf) “zona critica”, dove la libertà di stampa è limitata ma non completamente imbavagliata.
In pratica, come ha affermato il reporter d’inchiesta Javier Váldez poco prima di essere assassinato a Sinaloa, il 15 maggio 2017: «I narcos hanno sottomesso il governo, hanno sottomesso gli imprenditori e ora stanno sottomettendo i giornalisti». «Nelle zone silenziate sono i narcos a “dettare la linea” al giornale, a definire il menù di quanto deve essere pubblicato, a censurare le notizie scomode», racconta Balbina Flores, rappresentante in Messico di Rsf. Il meccanismo è semplice: ogni gruppo ha un “incaricato” dei rapporti con i media. Non proprio un ufficio stampa, ma quasi. Quest’ultimo monitora regolarmente radio, tv e quotidiani. E chiama i singoli giornalisti per comunicare che cosa devono scrivere e come devono farlo, e che cosa devono, invece, ignorare. «Non so come facciano, ma hanno tutti i telefoni di ogni reporter: casa, ufficio, cellulare. Chiamano alle ore più impensate, nel cuore della notte. Non chiedono, ordinano. “Vai a fotografare quello”, “Non menzionare quell'altra sparatoria...”, “Ignora il cadavere decapitato trovato di fronte alla scuola”. A volte, ti dicono perfino quanto spazio dedicare a una notizia. Caporedattori dell’orrore. Se non ti adegui, prenderanno “provvedimenti”: il più frequente è la “tablada”, il pestaggio con tavole di legno sulle piante dei piedi fin quando non riesci più a camminare. Se perseveri, muori», dice Gildo Garza, 39 anni, di cui diciotto trascorsi come reporter nella più emblematica “zona silenziata” messicana: lo Stato di Tamaulipas, nel nord-est.
Proprio là, i sanguinari Los Zetas – in perenne conflitto con i rivali del Golfo – hanno plasmato il primo buco nero mediatico. A partire dal 6 febbraio 2006, quando un commando armato è entrato nella redazione del Mañana di Nuevo Laredo ed ha esploso vari colpi di mitragliatrici e due granate. Uno dei 40 reporter presenti – pochi rispetto all'organico ma era un giorno festivo –, Jaime Orozco Tey è rimasto mutilato. Era la prima volta che si verificava un attacco simile nella nazione. Non sarebbe stata l’ultima. Lo stesso Mañana ha subito altri due attentati sei anni dopo, nel 2012, il 12 maggio e l’11 luglio. Quel medesimo giorno, sconosciuti hanno fatto esplodere un ordigno di fronte alla sede di El Norte, sempre a Nuevo Laredo. Qualche mese prima, a marzo, era toccato alle redazioni di Televisa e dell’Expreso di Ciudad Victoria. Nel frattempo, uno dopo l’altro, i giornali avevano smesso di dare informazioni sulle sparatorie, i sequestri, i corpi mutilati abbandonati per le strade. In pratica, su quanto accadeva e accade tuttora in Tamaulipas. «Se sfogli le pagine di un qualunque quotidiano, ci trovi comunicati ufficiali del governo, dichiarazioni dei vari politici, un po’ di costume. Nessun accenno a quanto avviene fuori. Quando c’è stato l’attacco all’Expreso ero presente: hanno fatto scoppiare un’autobomba. Come in Iraq... Abbiamo dato la notizia su Internet ma, poco dopo, l’abbiamo dovuta togliere per evitare ulteriori rappresaglie. Mi ricordo quel giorno».
È stato allora che Garza ha cercato di sfuggire all’autocensura dei media, creando un sito indipendente, El Ciudadano. Il quotidiano online si concentrava sugli intrecci tra crimine organizzato e politica, «la radice del dramma del Tamaulipas e dell’intero Messico», secondo Garza. Poi, una sera di giugno 2013, Mario Ricardo Chávez Jorge, co-fondatore e direttore della testata, è stato sequestrato mentre usciva dal cinema. Il suo corpo seviziato è stato trovato due settimane dopo, il 24 giugno, nei pressi di Reynosa. Dopo una breve indagine, le autorità hanno affermato che l’omicidio non era legato all’attività giornalistica di Chávez Jorge. «È un classico, purtroppo – sottolinea Flores –. Eppure ci sono ben quattro strutture pubbliche per proteggere la libertà di stampa, abbiamo addirittura una Procura ad hoc dal 2010». Dei 48 casi di assassinio presi in carico finora, questa ne ha risolti appena 3. Se l’impunità in Messico è del 98 per cento quella relativa ai diritti contro i giornalisti è del 99,75 per cento. Gildo Garza s’è trovato di fronte a un bivio: continuare a fare il cronista, con il rischio di finire come l’amico e collega, o “adeguarsi”. Ha provato a imboccare la prima strada. «Perché? Come giornalisti ci siamo presi l’impegno di informare. Non possiamo rinunciare ora che il Paese ne ha maggiore necessità».
Il reporter ha, così, creato un nuovo quotidiano online, Cambio.press, specializzato in inchieste sulla cosiddetta “narco-politica” e “narco-economia”. Per un po’, pur fra molte difficoltà, i narcos l’hanno lasciato andare avanti. «Alla fine, l’8 giugno 2017 ho ricevuto un ultimatum da Los Zetas. Mi hanno dato un paio d’ore per abbandonare la città, altrimenti l’avrebbe pagata la mia famiglia». Garza ha preso la moglie e i figli e si è trasformato in una delle centinaia di migliaia di sfollati interni messicani. Da quasi diciotto mesi vive sotto protezione fuori dal Tamaulipas. «Lo rifarei? Beh in realtà non ho mai smesso di farlo. Cambio.press continua a informare. Non so se sia utile. Ma se si prendono il disturbo di silenziare la stampa – i narcos e soprattutto i loro alleati politici – vuol dire che dà fastidio...».