Economia. L'impoverimento industriale e il cortocircuito tra politica e impresa
Lo scontro a distanza tra Giorgia Meloni e Stellantis (o più precisamente gli Agnelli e ancora più specificamente John Elkann) è emblematico di come – e non da oggi – sia complicato il rapporto tra politica e grandi imprese nel nostro Paese. Potremmo stare settimane a dibattere su chi avesse ragione, anzi, su chi avesse più ragione o meno torto, a seconda di come la si voglia vedere: la presidente del Consiglio che rinfaccia alla più celebre famiglia imprenditoriale del Paese l’avere privato l’Italia di una delle sue aziende simbolo o l’impresa che rivendica di avere investito miliardi in Italia e ricorda di essere uno dei “campioni” dell’export di Made in Italy.
È tutto discutibile, ma anche tutto davvero poco utile allo sviluppo del sistema-Paese. Sfugge infatti la questione centrale, che non si può risolvere in poche battute: l’Italia sta perdendo, una alla volta, le sue grandi imprese private. Fiat era ed è ancora oggi la più grande. Fca Italy, poi ribattezzata Stellantis Europe, è al quinto posto nella classifica dei fatturati 2022 secondo l’ultima edizione di “Le Principali società italiane”, un’indagine che Mediobanca porta avanti dal 1966. Davanti ha solo imprese che hanno lo Stato come azionista di riferimento (Eni, Enel, il Gestore dei mercati elettrici) e poi il gruppo dell’energia a controllo francese Edison, che aveva beneficiato quell’anno della corsa delle bollette. L’ex Fiat resta la maggiore impresa industriale privata d’Italia, anche se oggi è la divisione italiana di un gruppo multinazionale che ha la testa tra Parigi e Detroit e il suo contributo allo sviluppo del Paese si è molto ridimensionato. Eppure, non riesce ad avere una relazione normale con il governo.
Il problema non riguarda unicamente Stellantis. Da diversi anni i massimi decisori politici italiani faticano a parlare e a capirsi con le grandi imprese: non con le loro associazioni, ma con le singole aziende, cioè con i manager e i grandi azionisti. È scontro aperto con i Mittal per l’ex Ilva, la più grande acciaieria d’Europa che non è in grado di pagare le bollette del gas; è sempre alta tensione con Bolloré e la sua Vivendi, azionista di controllo di Tim, società privatizzata male e profondamente indebolita; è finita malamente con gli arabi di Etihad, l’ultimo grande socio di Alitalia prima della bancarotta definitiva (e ora l’ex compagnia di bandiera è costretta a sperare che Bruxelles non ostacoli il suo passaggio a Lufthansa).
Dietro il progressivo impoverimento industriale del Paese ci sono fattori arcinoti, dalla burocrazia ai costi dell’energia, passando per la tassazione e la carenza di personale qualificato. Ma c’è anche il problema dell’incapacità di dialogo politica-imprese e della mancanza ultradecennale di una seria politica industriale.
Lo scontro tra Meloni e Agnelli conquista facilmente i titoli, mentre ci sono questioni forse meno coinvolgenti ma sicuramente più rilevanti che non riescono a farsi spazio nel dibattito pubblico: perché l’Italia sembra diventata così inospitale per le grandi imprese? Perché è diventata così poco interessante per gli imprenditori di successo che vogliono avviare un’attività in Europa? Perché fa tanta fatica a trattenere le sue aziende migliori? Elon Musk si è presentato ad Atreju, ma la fabbrica europea di Tesla l’ha costruita a Berlino.
La Francia di Macron ha già completato la prima delle quattro grandi gigafactory messe in cantiere per produrre batterie per auto elettriche. Stefano Buono, che è un imprenditore italiano, ha fondato una delle startup dal maggior potenziale in un settore su cui c’è molta aspettativa, quello dell’energia nucleare con centrali di piccole dimensioni e con tecnologie più pu-lite: si chiama Newcleo, fa ricerca a Torino, ma ha messo la sede a Londra e con il prossimo aumento di capitale potrebbe accogliere come azionista il governo francese. Nella storia del futuro industriale dell’Europa sembrano esserci tutti, tranne l’Italia, da anni troppo presa dalle sue polemiche per accorgersi che altrove politica e impresa hanno imparato a capirsi un po’ meglio che qui.