Opinioni

QUELLE VITE NEL VENTRE DEL CILE. Come figli che ci sapremo restituire

Marina Corradi mercoledì 25 agosto 2010
«Stiamo tutti bene nel rifugio. I 33». Quando il biglietto attaccato alla sonda è arrivato in superficie, in Cile la gente è scesa per le strade a festeggiare. Come per una vittoria in Coppa del mondo. Ma una vittoria molto più grande. Quei trentatré minatori dati per dispersi nelle viscere della terra il 5 agosto a Copiapo, nel Nord, dopo 17 giorni erano vivi. E in un Paese in cui molte famiglie povere hanno o hanno avuto un figlio o un padre minatore, ognuno di quei trentatré è un figlio, o un padre.Ora cominciano a scavare le macchine, poderose talpe meccaniche che dovranno scendere 700 metri sotto il suolo; ma delicatamente, per non smuovere ancora le migliaia e migliaia di tonnellate di roccia che seppelliscono i superstiti. Si scaverà un tunnel largo appena quanto basta perché ci passi un uomo; e ci vorranno mesi, forse tre, forse quattro – sarete a casa a Natale, è stato promesso ai minatori, senza aggiungere: “forse”.Ma intanto una sonda sottile porta laggiù cibo, vitamine, medicine; e parole, e messaggi, e foto di famiglia, perché fondamentale è tenere viva, quanto il corpo, la speranza. E allora quel tubo di 30 centimetri di diametro è come un cordone ombelicale: uomini che nutrono altri uomini, nel buio spaventevole del ventre della terra. Ventre asfissiante e troppo caldo: 35 gradi, e il rifugio è largo 50 metri quadrati. Appena il posto per restare seduti, vicini, rubandosi l’un l’altro il respiro. Possibile, vivere così per tre mesi?  Ma gli ingegneri tracciano affannati la direzione degli scavi, e il governo cileno chiede aiuto alla Nasa per sapere cosa aiuta la sopravvivenza in luoghi chiusi e inaccessibili: i prigionieri là sotto mangeranno gli integratori degli esploratori dello spazio. Una stremata corsa contro il tempo, il buio, la morte. Eppure fino a pochi giorni fa in Cile una miniera come questa  poteva restare aperta anche dopo decine di incidenti, a dire che oro, o rame o carbone valgono più della vita: come ancora oggi in molte parti del mondo, come sessant’anni fa a Marcinelle – da dove tanti italiani non tornarono. E adesso invece che sfida estrema ha ingaggiato un intero Paese, per riprendersi i suoi, sepolti là sotto. Quasi che solo ora, quando ci sono tonnellate di roccia sospese e un abisso di mezzo, ci si accorgesse di quanto vale davvero la vita di un uomo. Diciassette giorni, tanti ne sono passati senza che dalla miniera San Josè venisse alcuna eco di vita. Più che abbastanza perché si smettesse di sperare, perché i titoli si appiattissero rassegnati nella parte bassa delle pagine dei giornali. Poi, «Estamos bien en el refugio»: quel bigliettino incredibile e incredibilmente ottimista, vergato in rosso, venuto su dalla terra, tornato indietro dal buio. E una solidarietà profonda, viscerale che si muove. I progetti, le macchine; la sonda che porta giù medicine, e fotografie dei figli, e biglietti da casa. Cordone ombelicale, appunto, spinto in un ventre ostile, da cui tuttavia forse è possibile ancora rinascere; ancora tornare alla luce e respirare, i polmoni che scoppiano fino a dolere di aria fresca – ancora vivi.Ma non erano solo poveri cristi cacciati per due lire in gallerie insicure, giù per camini franosi – come il più vecchio, Mario Gomez, 61 anni, in miniera da quando ne aveva 12, e che a Copiapo non voleva tornare? I giornali cileni allineano le trentatré facce, e a quanti sembra di riconoscerle: somigliano a un fratello, a un figlio – sono uomini. Ci vorranno tre mesi, o piuttosto quattro. Forse. Bisogna scavare piano, per non provocare ancora gli abissi. Forse, a Natale i trentatré di Copiapo rivedranno la luce; e sarà come rinascere, figli di un Paese intero. Ma anche nostri.