La speranza e le ombre. Corea tra pace ed escalation
Mano nella mano. Come fecero Kohl e Mitterrand a Verdun, a chiudere con un gesto di inequivocabile fratellanza il cerchio di lutti e di discordia che per due guerre mondiali aveva diviso Germania e Francia. Un gesto che abbiamo rivisto a Panmunjom, sperduto villaggio sul trentottesimo parallelo, divenuto per qualche ora il centro del mondo. Perché è lì, fra le brulle colline che delimitano la terra di nessuno che si è svolto lo storico incontro fra il leader della Corea del Nord, Kim Jong-un, e il presidente della Corea del Sud, Moon Jae-in, lì su quell’invisibile linea rossa che dal 1953 tiene separati due popolazioni che parlano la stessa lingua, respirano la stessa aria, hanno parenti, congiunti, amici divisi da una frontiera eternamente in bilico su un fragile armistizio.
È presto per cantare vittoria. Un summit – se pure illuminato da una consapevole volontà di concordia, con la promessa di una denuclearizzazione della penisola, di una riduzione degli armamenti e soprattutto di un trattato di pace a breve termine – certamente non basta a dissipare l’ombra di una possibile ricaduta, visto il fallimento della Sunshine Policy, la politica di appeasement e di riavvicinamento inaugurata da Seul fin dal 1998. Ora però – il gioco di parole con Moon Jae-in è più che trasparente – è subentrata la Moonshine Policy, una tela paziente finalizzata a un’abile quanto testarda propensione al dialogo che il cattolico presidente sudcoreano, nato nel nord nell’ultimo anno di guerra e riparato con la famiglia al sud dopo l’armistizio, ha tessuto giorno dopo giorno. Fino all’incontro al vertice di Panmunjom.«Siamo legati dal sangue e i compatrioti non possono vivere separatamente», ha proclamato Kim Jong-un, e sono parole nuove, inaudite, da non credere forse possibili da parte di un leader che fino a poche settimane fa minacciava Stati Uniti e Giappone brandendo la sagoma minacciosa dei propri missili balistici.
Fin qui le parole, gli auspici, le speranze. Dietro le quinte il panorama è un po’ diverso. Mai come ora, per cominciare, si è vista un’escalation così forte degli armamenti convenzionali: si riarma il Giappone, nonostante l’articolo 9 della Costituzione vieti alla Jeitai, la Forza di autodifesa, di superare certi ambiti territoriali e limiti drasticamente il bilancio dell’esercito (con il premier Abe si è toccato un record di spesa, il più alto dai tempi di Pearl Harbour); e si riarma anche la Corea del Sud.
Entrambe oltre ad ammodernare il proprio arsenale hanno acquistato i nuovissimi sistemi antimissile americani Thaad a protezione del proprio spazio aereo. Un successo – se così possiamo chiamarlo – per Donald Trump e per le industrie belliche americane che ora fanno festa perché al di là dei buoni propositi business is business; ma anche (per lo meno fino a questo momento) un successo sul piano diplomatico che ridà un po’ di smalto alla politica estera americana. «La guerra coreana finirà – scrive in un tweet il presidente Trump –. Gli Stati Uniti, e tutto il suo grande popolo, dovrebbero essere molto fieri di ciò che sta avendo luogo adesso in Corea!».
Rimane aperto tuttavia il nodo nucleare. Nel momento in cui nell’agosto del 2017 un missile balistico monostadio Hwasong-12 capace di trasportare una testata nucleare ha sorvolato il Giappone fino a inabissarsi nell’Oceano Pacifico, la Corea del Nord (sebbene il primo test atomico di Pyongyang risalisse all’ormai lontano 9 ottobre 2006) ha fatto ufficiosamente il suo ingresso nel club atomico, finora monopolio dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite aderenti al Trattato di non proliferazione nucleare, andando ad allargare la pattuglia dei "non aderenti": India, Pakistan e Israele. Dobbiamo davvero credere che ottenuto un simile status Pyongyang rinuncerà al proprio deterrente nucleare? Un deterrente che da sempre funziona, e non solo per i grandi blocchi. Non è un caso che mentre Washington non ha esitato a intervenire militarmente in Afghanistan e Iraq (Paesi con armamenti convenzionali) si è ben guardata dal farlo nella Corea del Nord.
La stessa Cina mostra di non gradire più di tanto un vicino dotato di armi nucleari, ma finisce per tollerarlo. Se ci sarà prossimamente un vertice fra il presidente americano e il leader nordcoreano sarà probabilmente questo il nodo più difficile da sciogliere.
Ma se la stretta di mani a Panmunjom fra i due leader sarà per lo meno servita a interrompere fra Washington e Pyongyang quell’irresponsabile chicken-game (il pericolosissimo gioco a chi sterza per primo per evitare lo scontro frontale, perdendo però la faccia) che per molti mesi ha tenuto il mondo con il fiato sospeso, ricorderemo comunque questo giorno come una svolta storica.