Editoriale. Coraggio e speranza: luce nuova nei seminari
Tuttavia spesso è latente e pervasivo un altro modo di pensare la vocazione: è la "sindrome del guardare indietro". Se nella Chiesa italiana o in quella europea, ci si confronta con il tempo che fu, fino agli anni ’70 e ’80, là dove i seminari erano fiorenti e le case religiose ingrandivano il perimetro delle loro istituzioni, traboccando di ingressi vocazionali, la nostalgica rincorsa di questo tempo è deleteria. Oggi sono emerse altre consapevolezze: la presa di coscienza che la vocazione tocca la vita di ogni discepolo di Gesù, sin dal suo Battesimo; la crescita in qualità di una presenza di servizio e di ministero nella comunità cristiana; la disponibilità maggiore dei laici a essere soggetti attivi nella vita ecclesiale; il sorgere di nuovi movimenti che portano con sé un nuovo fiorire vocazionale; il diffondersi di una rinnovata "cultura vocazionale", in cui matura la convinzione che la pastorale vocazionale non è solo una delega per alcuni, ma un impegno per tutti; il diffondersi di "monasteri invisibili" e cenacoli di preghiera che sono la base per ogni nuova primavera vocazionale. Sono piccoli e timidi segnali, ma saremmo ciechi a non tenerli presente.
Sempre nel Messaggio per la Giornata, Papa Francesco afferma: «Nel racconto della vocazione del profeta Geremia, Dio ricorda che Egli veglia continuamente su ciascuno affinché si realizzi la sua Parola in noi. L’immagine adottata è quella del ramo di mandorlo che primo fra tutti fiorisce, annunziando la rinascita della vita in primavera (cfr Ger 1,11-12)». Qual è la situazione vocazionale della Chiesa italiana? Le diocesi presenti in Italia sono 226, a cui si aggiunge nel computo statistico l’Opus Dei. Stiamo assistendo a una crescita del numero dei Seminari minori, dopo una crisi che pareva irreversibile, con formule nuove e ripensate in maniera più attuale per fare fronte alle esigenze scolastiche e soprattutto di nuovi contesti e rapporti familiari. I Seminari maggiori, cui spetta il compito formativo di preparare i candidati al sacerdozio, sono attualmente 93. I giovani impegnati nel biennio filosofico sono 855, mentre quelli inseriti nel cammino teologico, che sfocia poi nell’ordinazione diaconale e presbiterale, sono 1.995, a fronte dei 2.155 del 2010, o dei 2.064 del 2011. Il calo è evidente, ma questo dato non influisce sul numero delle ordinazioni sacerdotali: esse si mantengono alquanto stabili, semmai con un trend leggermente in crescita, dopo la continua e vertiginosa discesa degli anni precedenti: nel 2012 le ordinazioni in Italia sono state 415, nel 2007 erano 395.
Ci sono segnali di ripresa in alcune diocesi dell’Italia, là dove viene fatta la scelta coraggiosa di investire energie fresche e motivate. Anche in questo caso c’è un fatto significativo presente nei dati vocazionali dei Seminari in Italia: dal 2007 al 2012 gli ingressi nei Seminari maggiori sono alquanto stabili. E la stabilità è già un segno di positività, che trova conferma nei dati appena pubblicati dall’Archivio Statistico Vaticano per il 2012. Tutto questo è sufficiente per affermare che siamo fuori dalle sabbie mobili della crisi di vocazioni nella Chiesa? Certamente no! I dati statistici globali dell’Europa ci dicono che il problema vocazionale è una reale sofferenza ecclesiale. Eppure esso va guardato e letto con realismo e con fiducia. Per far crescere in noi uno sguardo di positività non idealistica o utopica, ma radicata nella fede, vorrei indicare alcuni atteggiamenti pastorali e vocazionali che possono diventare fecondi e generativi per le comunità cristiane. Siamo anzitutto chiamati a essere uomini e donne che, prendendo su di sé le vite degli altri, vivono l’amore senza contare fatiche e paure; uomini e donne che, senza proclami e senza ricompense, nel silenzio, fanno ciò che devono fare, consapevoli che «il nostro compito supremo nel mondo è custodire delle vite con la propria vita», come afferma lo scrittore bulgaro Elias Canetti (1905-1994).
La sensazione che potremmo avere nel guardare alle persone che ci passano accanto è che la vita sia come un arco dalla corda spezzata, da cui non si può lanciare alcuna freccia verso il bersaglio. Si potrebbe quasi dire che i sentimenti fondamentali che le persone vivono non siano più di dolore o di gioia, di ansia o di pace interiore, ma piuttosto di indifferenza e noia. In questo contesto di relativismo siamo chiamati a divenire "figli della luce", a essere donne e uomini "mattinali", in attesa dell’aurora che, dopo la notte, dipinge di luminosità nuova l’orizzonte. Infine, siamo chiamati a percorrere un sentiero arduo e faticoso, portando nel cuore le parole del teologo Dietrich Bonhoeffer: «L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi; una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, ma il futuro lo rivendica sempre a sé».