Opinioni

Cooperazione anti-evasione. Da Londra un segnale da rafforzare

Francesco Gesualdi mercoledì 6 marzo 2019

Il governo britannico ha deciso di adottare linee di cooperazione internazionale allo sviluppo sempre più orientate a fornire, invece del pesce, canne da pesca. E addirittura arpioni di grosso calibro visto che l’intento è quello di catturare pescecani. Lo rivela una nota del Dipartimento per la cooperazione internazionale che segnala di avere destinato 47 milioni di sterline a iniziative tese a rafforzare il sistema fiscale dei Paesi africani in modo da ridurre l’evasione fiscale e aumentare l’autonomia finanziaria di quegli Stati. Un annuncio accolto con grande favore dalle organizzazioni non governative inglesi considerato che l’Africa ha una delle pressioni fiscali più basse del mondo (25% contro una media Ocse del 34%) e che, secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale, l’evasione provoca alle casse pubbliche un ammanco annuale di 13 miliardi di dollari pari all’1,5% del prodotto lordo continentale.

Quello dell’evasione è un fenomeno che coinvolge soprattutto le multinazionali particolarmente dedite a pratiche di trasferimento clandestino di profitti. Grazie alla loro rete di filiali sparse in tutto il mondo, riescono ad aggirare le leggi doganali e fiscali tramite operazioni intragruppo basate su manipolazioni contabili, fatturazioni alterate, crediti fittizi. Manovre che non solo procurano gravi perdite alle casse pubbliche degli Stati, ma provocano anche una massiccia emorragia di capitali.

Secondo la Commissione Economica per l’Africa, fra il 2001 e il 2010 la sola manipolazione delle fatture ha permesso alle multinazionali di fare uscire dal continente 407 miliardi di dollari. Un salasso che sommato all’esportazione di capitali da parte di imprenditori e dirigenti pubblici locali ha prodotto un accumulo di capitali africani nei paradisi fiscali pari a 203 miliardi di dollari che corrisponde al 15% di tutta la ricchezza finanziaria africana. Dal che scopriamo che l’Africa ha una percentuale di ricchezza rifugiata all’estero doppia rispetto alla media mondiale che si attesta al 9,8%.

La perdita fiscale per l’Africa è tanto più grave se messa a confronto con la sua situazione sociale e i suoi bisogni infrastrutturali. Giova ricordare che l’Africa ospita quasi la metà di tutti i poveri assoluti del mondo, coloro cioè che vivono con meno di 1,90 dollari al giorno. Il loro numero è superiore a quello di qualsiasi altro continente sia in termini assoluti che relativi: 413 milioni pari al 35% dell’intera popolazione. E se ci concentriamo sulle singole privazioni scopriamo che il 35% degli africani non dispone di acqua potabile, il 53% non ha accesso alla corrente elettrica, il 64% non dispone di servizi igienici.

Secondo la Banca Africana per lo Sviluppo, per permettere all’Africa di risolvere le proprie carenze croniche di infrastrutture servirebbero dai 130 ai 170 miliardi di dollari l’anno per i prossimi 10 anni. In realtà, fra ciò che riescono a raccogliere i governi locali e ciò che viene realizzato dai soggetti esteri sia privati che pubblici, la cifra raggiunge a malapena la metà: 70 miliardi di dollari l’anno. Non c’è, dunque, da sorprendersi se in Africa il debito stia tornando a rialzare la testa.

Dal 2012 al 2016 il debito pubblico dell’Africa sub-sahariana è passato dal 37% al 56% del prodotto lordo con gravi contraccolpi per i Paesi più fragili. Secondo la Banca Mondiale 18 Paesi africani sono a rischio crisi debitoria, mentre otto stanno già dando segni di non farcela. Il Ghana, ad esempio, con un debito pubblico pari al 70% del Pil è un vigilato speciale del Fmi. Praticamente il suo debito è triplicato in 10 anni, con conseguenze drammatiche per il bilancio pubblico.

Se nel 2006 gli interessi assorbivano il 17% del magro gettito fiscale, nel 2017 si sono mangiati il 42% di tutte le imposte riscosse dal governo ghanese. Ed è tornato prepotente lo spettro dell’austerità con inevitabili conseguenze sui cittadini: secondo l’organizzazione britannica Jubilee Debt Campaign, dal 2012 al 2017 la spesa pubblica pro capite si è ridotta del 20%. E a dimostrazione di quanto pesi sulla crisi debitoria del Ghana l’inefficienza fiscale, il Centro studi britannico Institute for Fiscal Studies esorta il governo di Accra ad essere più severo con l’industria estrattiva eliminando esenzioni e privilegi, migliorando nel contempo la macchina del prelievo fiscale.

La voce di questo Centro studi è tenuta in grande considerazione anche dal governo inglese, tant’è che 5 dei 47 milioni di sterline stanziati per il progetto di rafforzamento fiscale in Africa saranno utilizzati proprio per la consulenza fornita dall’Institute for fiscal studies. Tuttavia, in una lettera al 'Financial Times', Matti Kohonen, esponente dell’organizzazione non governativa Christian Aid, sottolinea che il contributo inglese al sistema fiscale africano non può limitarsi ai buoni consigli. Contemporaneamente deve mettere ordine in casa propria imponendo ai propri territori di Oltremare di non comportarsi più come paradisi fiscali. Cayman, Bermuda, Isole Vergini sono solo alcuni dei paradisi fiscali inglesi in cui trovano rifugio i capitali di tutto il mondo.

Come primo passo dovrebbero attuare maggiore trasparenza rendendo pubblico il registro di chi ha eletto domicilio fiscale nei loro confini. La segretezza, infatti, è sempre stata la principale alleata dell’evasione fiscale e se l’Inghilterra vuole rafforzare seriamente il sistema fiscale africano è da questa battaglia che deve partire. Per coerenza non può dare con una mano e riprendere con l’altra.