Fino a qualche tempo fa la floridezza del corpo era considerata qualche cosa di positivo, una specie di eccesso gioioso, di allegra morbidezza: la pancia negli uomini di mezza età era il connotato fisico del benessere raggiunto, se non materiale, almeno di quello mentale, dove l’allegra assunzione del cibo e del vino erano vissuti come un inno gaudente all’esistenza. La donna, quella con le curve, quella con la quinta di reggiseno, era l’icona dei calendari, le misure 90 60 90 erano i requisiti minimi per vincere un concorso di bellezza: ebbene, tante cime, tanti promontori e parapetti mozzafiato, erano frutto del lavoro instancabile del carboidrato, della proteina contenuta nella burrata e nel capocollo e dei grassi saturi della panna montata.Erano ancora lontani i modelli dell’atletismo mistico e scavato, del sacrificio dietologico, della conversioni di massa al dio Kamut; erano epoche dove era inimmaginabile concepire come nemici il glutine e i latticini, fantascientifiche le intolleranze al frumento e ai lieviti del miele, quelli erano anni dove il valore della lasagna non era negoziabile. Quelli erano i tempi che la domenica si mangiava il salame come antipasto, i maccheroni panna e prosciutto come primo, l’arrosto con le patate di secondo, e il cannolo alla ricotta come dessert; la frutta consisteva nella fettina di fragola che stava adagiata sopra il pasticcino alla crema. Poca acqua e tanto vino rosso, perché il bianco mette mal di testa. Forse si sarà anche esagerato all’epoca: dopotutto quella generazione veniva dalla penuria provocata dalla guerra, e le generazioni prima ancora avevano talmente mangiato poco che il loro dna aveva elaborato il gene del desiderio di panettone con la crema di mascarpone!Ma cosa è dovuto succedere perché si possa considerare malato un grasso? Ora quando vediamo una persona sovrappeso ci viene la tentazione di informare i servizi sociali. Quando incontriamo una persona che non riesce ad allacciarsi la giacca ce la figuriamo già in un reparto di rianimazione cardiologica. Sta avvenendo una mutazione di percezione: il grasso è considerato persona socialmente pericolosa, la persona grassa, dentro al nostro inconscio, corre il rischio di essere meno tollerata di un gender. Ora va di moda la magrezza. Una volta se non eri almeno 2 taglie sovrappeso ti consigliavano un oncologo e ti chiedevano se eri stato ad Auschwitz. Ora per potersi iscrivere a certi club bisogna esibire i valori di massa corporea e la percentuale di grasso deve essere inferiore al 12%. Una volta la moglie ti chiedeva quanta pasta volevi mangiare, e si rispondeva "2 etti, anzi no fanne 3"; ora vogliamo sapere l’indice glicemico della pasta che mangeremo, e comunque mai più di 80 grammi e obbligatoriamente integrale! Però è strano pensare che nell’epoca in cui vanno di moda il corpo magro e asciutto, l’addome a tartaruga, e la dieta a zona, sia esploso il desiderio di diventare tutti cuochi, anzi tutti masterchef. Che bello il tempo in cui la tavola era il luogo dove la famiglia si incontrava dopo la giornata di lavoro, dove gli amici si davano appuntamento per il piacere della compagnia, dove ci si dava convegno per festeggiare con il cibo le feste e gli avvenimenti più importanti della nostra vita. Ora la tavola non è più il luogo dell’incontro gioioso, ma dello stress da competizione, è il luogo dell’angoscia da prestazione. Può capitare che dopo un paio di proposte sbagliate, oppure semplicemente per aver impiattato tardi o per aver scaldato l’aceto balsamico che si è caramellato, le mamme perdano il posto di regine del focolare e vengano cacciate di casa, e al loro posto venga assunto uno chef pluristellato. Ma non è solo un cambiamento che riguarda l’alimentazione, è qualche cosa di più profondo, di culturale, di gusto in senso estetico e filosofico. Una volta i bambini supplicavano il papà di poter guardare la partita di calcio assieme a lui, e la mamma sorridente portava un cabaret di paste. Ora i papà supplicano i loro figli di poter guardare assieme a loro "Cucine da incubo", Masterchef", "La prova del cuoco" o "I menù di Benedetta". Una volta i papà insegnavano ai loro figli la formazione ideale di tutti i tempi: Sarti, Burgnich, Facchetti, Bedin, Guarnieri, Picchi, Jair, Mazzola, Peirò, Suarez e Corso. Invece la formazione ideale di un bambino nato nel 2004 è: Cracco, Barbieri, Bastianich, Ramsey, Bottura, Scabin, Santini, Andrià, Marchesi e Ducasse. I bambini una volta giocavano a calcio, alla lotta, ai cow boy e si menavano per una figurina doppia di Chiarugi, ora parlano di pentole di rame stagnato, di forni a bassa temperatura e il loro gioco preferito è imparare a tagliare le zucchine alla julienne. Forse stiamo rovinando uno dei piaceri più belli dell’esistenza: mangiare insieme. Se inviti gli amici a cena, è bene prepararsi a delle umiliazioni terribili. Se sbagli a salare la pasta, rischi che ti dicano in faccia che sei un imbecille, ma non da quella sera, da sempre! Se non indovini l’abbinamento del vino con il cibo, ti danno fuoco alla cucina poi ti portano in piazza e tutti gli abitanti del quartiere possono insultarti per dodici ore di fila. Forse è per quello che siamo tutti magri: che sta diventando un incubo mangiare. Di questo passo nessuno inviterà più nessuno, ognuno mangerà da solo e ci si siederà a un tavolo imbandito solo per comunicare un licenziamento, una separazione o una dichiarazione di guerra. Strano e complicato è il rapporto che l’essere umano ha con il cibo: ha trascorso millenni a cercarlo, anelarlo, sognarlo di notte, ad aver i crampi per la fame, ora invece ci sono delle malattie per cui lo si rifiuta e in certi casi una persona va alimentata con la forza. La scienza ci mette continuamente in guardia dai suoi eccessi, dal suo rifiuto, dalla sua qualità, dalla sua genuinità. Dal modo come ci cibiamo può dipendere la forma del nostro fisico, la salute o le malattie del corpo, dal rapporto che abbiamo con il cibo può dipendere la nostra gioia interiore o il nostro inferno mentale; attraverso il cibo non passano soltanto aminoacidi, carboidrati raffinati e omega3, il cibo ci nutre veramente in maniera completa, il cibo è per il corpo, per la mente e anche per il nostro cuore; attraverso il cibo noi introiettiamo o rifiutiamo il desiderio, l’istinto, il trascendente; il nostro pane quotidiano si offre al nostro apparato digerente per essere assimilato e trasformato: l’atto del mangiare è contemporaneamente atto concreto e potentissima metafora dell’esistenza: senza l’altro (il cibo) si muore; la scelta, il tipo di desiderio dell’altro e la finalità verso l’altro (il cibo) modella il mio corpo ma soprattutto il mio cuore (luogo dell’anima per gli antichi). A furia di parlar di cibo – e quanto dovremo farlo nei giorni dell’Expo intitolati al "Nutrire il pianeta, energia per la vita" – mi è venuta l’acquolina in bocca: non vi rivelo cosa mi mangerò, so soltanto che i miei trigliceridi hanno avuto un’impennata appena hanno visto cosa c’è nel piatto!