Ambiente. Ecco chi resiste all'onda verde di tanti giovani
Lo sciopero globale per il clima indetto da ragazzi e ragazze di tutto il mondo ha avuto una grande risonanza. Un movimento quasi sconosciuto ai più prima del 15 marzo, si è reso evidente con un’azione globale senza precedenti, per intensità ed estensione. In realtà che le tematiche ambientali e di sostenibilità siano di interesse per i più giovani è un dato che sta emergendo da tempo, e che ha raggiunto solo ora una massa critica. Lo sciopero di protesta per l’inerzia verso il riscaldamento globale ha visto i giovani decisi, coraggiosi, creativi e simpatici nelle loro espressioni. Le manifestazioni si sono svolte in più di 2.000 città e in oltre 120 Paesi di tutti i continenti. In Italia 235 le città coinvolte. Ragazzi spesso considerati assenti, apatici, disinteressati alla politica e alle questioni sociali sono emersi, e hanno fatto sentire le loro priorità e le loro preoccupazioni: non abbiamo un pianeta B, dobbiamo agire in fretta, i politici si muovano.
I minorenni non hanno diritto di voto e devono subire scelte politiche di cui essi stessi avranno le conseguenze sulle loro spalle, e non di certo chi quelle scelte le ha fatte. Per questo protestano, per questo fanno sentire la loro voce. Sono efficaci perché genuini. Non hanno paura di dire ad alta voce che una piccola minoranza di persone, per difendere i propri interessi economici sta sacrificando il pianeta. Al World Economic Forum di Davos, tenutosi a gennaio, si rivolgono ai politici presenti come responsabili dei cambiamenti climatici in atto. Hanno capito che i problemi dipendono non tanto, e non solo, dai comportamenti dei singoli, ma dalle strutture sociali e politiche. I ragazzi italiani hanno inventato l’hastag #CariPolitici, e hanno pubblicato una lettera il 5 Marzo dove, tra l’altro, scrivono: «Ci avete deluso in passato e temiamo continuerete a deluderci anche in futuro; abbiamo cominciato a muoverci e non ci fermeremo più». In molti hanno definito il movimento che è sceso in piazza come un nuovo sessantotto. Noto una differenza fondamentale: questi giovani non vogliono emanciparsi rispetto a chi li ha preceduti, ma vogliono farsi voce di istanze sulle quali chiedono collaborazione e azioni comuni da parte di tutti.
I media internazionali hanno dato rilievo al fenomeno, applaudendo all’iniziativa e cogliendo l’invito ad una riflessione più seria su questi temi. In Italia le reazioni sono state ambivalenti, a tratti ciniche e violente: adulti che come bambini reagiscono davanti a ciò che sembra spaventarli verso ragazzi che protestano come gli adulti. Si an- dava dall’inneggiare al complotto di presunte organizzazioni che stanno manipolando i giovani, al puntare il dito sull’incoerenza dei comportamenti dei ragazzi – che protestavano, ma non avrebbero mai rinunciato al cellulare – al ribadire che i cambiamenti climatici sono pura illusione. Eppure il 99 per cento dei climatologi si trova in accordo sulle diagnosi, e anche sulle cure necessarie.
Ci è mai capitato di usare un bicchiere di plastica e, di fronte a chi ci faceva notare che non è rispettoso per l’ambiente, rispondere: non è il mio gesto a cambiare il mondo, lo fanno tutti? Questa, secondo Albert Bandura, lo psicologo sociale che si è occupato di studiare i meccanismi che permettono la violazione dei propri principi senza la perdita di una buona considerazione di sé, è una giustificazione che ci permette di continuare a star bene con noi stessi pur sapendo che il nostro gesto è dannoso per l’ambiente. Il libro di Bandura dedicato a questi temi è «Disimpegno morale: come facciamo del male continuando a stare bene». Una parte di questo libro è dedicata ai temi della sostenibilità e dell’ambiente. In generale i processi di disimpegno morale appartengono a tre grandi gruppi: processi di disimpegno che operano sulla definizione della condotta, meccanismi che determinano una distorsione nella relazione causa-effetto, processi che provocano una svalutazione della vittima, che può essere persona umana o vittima in senso figurato, come ad esempio l’ambiente. Tra i meccanismi ve ne sono un paio molto interessanti: l’etichettamento eufemistico e la colpevolizzazione e deumanizzazione delle vittime. Il primo consiste nell’utilizzare un linguaggio edulcorato, confuso o innocuo riferendoci ad alcune azioni dannose per l’ambiente, in modo da ridurre l’autosanzione morale che deriva da quei comportamenti. Il secondo consiste nel dimostrare a noi stessi che chi stiamo attaccando ha delle colpe, in modo da non farci scalfire dalle sue parole o dai suoi comportamenti.
In occasione del 15 marzo questi meccanismi sono stati utilizzati quasi tutti. I comportamenti dei ragazzi sono stati etichettati in modo da sminuirli: ecco l’'etichettamento eufemistico'; la leader del movimento globale, la quindicenne Greta Thunberg ha ricevuto insulti non ripetibili, quasi come se non ci si stesse rivolgendo a una persona: è la 'deumanizzazione'; i giovani sono stati colpevolizzati, definiti ipocriti e incoerenti: 'colpevolizzazione'. Il tutto per sentirsi a posto, per continuare tranquillamente a vivere come se niente fosse. Non sarà presente anche un po’ di invidia in queste reazioni? Quella di adulti che, non riuscendo a cambiare lo stato attuale delle cose, si sono accomodati? Non vorremmo arrivare a pensare che dietro la campagna mediatica denigratoria ci siano interessi economici di chi non vuole che lo stato attuale delle cose cambi. Che chi denuncia la strumentalizzazione mediatica a fine di marketing del movimento dei ragazzi e delle ragazze, stia in realtà cercando di strumentalizzare a sua volta l’opinione pubblica.
Una parte di critica è rivolta anche al fatto che gruppi diversi cerchino di tirare dalla propria parte i ragazzi a seconda degli interessi che si perseguono. Ma anche su questo i ragazzi ci stanno insegnando qualcosa: la loro protesta è diventata massiccia e globale proprio perché si sono uniti intorno ad un minimo comune denominatore, senza enfatizzare troppo le differenze, senza sottilizzare sui fini specifici. Hanno saputo fare rete. Ora, sarà pur vero che tra la protesta mondiale e i comportamenti rispettosi dell’ambiente e della Terra possiamo osservare tutta una serie di incoerenze dei ragazzi. Ma un adulto che desidera educare, un adulto generativo, un adulto veramente adulto, non solo non può fermarsi a queste evidenze, e non va a sminuire i tentativi di apertura, di protagonismo, di presa di coscienza e di responsabilità dei giovani. Un vero adulto sa guardare oltre, sa partire dal positivo e sa incoraggiarlo, sa farsi accanto, felice che i ragazzi dimostrino più coraggio della sua generazione. Sono figlia di un fondatore, Don Bosco, che di educazione se ne intendeva, e ci ha dimostrato come uno sguardo positivo, la fiducia, la vicinanza, insieme ad una correzione benevola, sono le chiavi per far crescere persone responsabili.
Per facilitare l’assunzione di comportamenti e stili di vita rispettosi del pianeta siamo chiamati a prendere sul serio questi ragazzi, a stimarli. Mi piacerebbe che fossero chiamati a dire la loro, al pari degli adulti, in parlamento, nei luoghi dove si prendono decisioni. Desideriamo davvero un mondo migliore per i nostri figli, per i nostri nipoti? Siamo disposti ad accompagnarli, a far loro spazio, ad aiutarli nel far diventare realtà i sogni? Possiamo provare con un maggiore rispetto nei loro confronti. In fondo questi giovani che iniziano a far sentire la loro voce sono figli e nipoti di generazioni precedenti che li hanno fatti crescere, e che dunque in qualche modo hanno contribuito alla loro presa di coscienza, alla maturazione della consapevolezza e ora dell’azione. Abbiamo educato (tratto fuori) giovani così: il loro entusiasmo sia forza per noi, la nostra benevolenza terreno fertile per loro, lavorare insieme per una causa comune segno di alleanza.