La lezione del giudice Falcone. Contro la mafia con efficacia unendo forma e sostanza
Caro direttore,
Palermo ha in sé qualcosa di struggente, nel perenne contrasto fra inquietudine e bellezza. Tesoro di un’isola in cui culture e millenni sono visibili a ogni scorcio, porterà per sempre addosso il segno di una storia nella storia. Un nome che l’intero pianeta conosce e che risuona cupo nelle coscienze: mafia. Vorrei poter parlare oggi di una organizzazione criminale sconfitta, dell’annientamento delle cosche e del loro potere intriso del sangue di centinaia di vittime.
Vorrei poterlo fare per rendere gratitudine ad un uomo che ha incarnato i migliori valori di un’esistenza personale e di un’idea di comunità: Giovanni Falcone. Ma non sono sicuro di riuscire a sentire profondamente una terra che è la mia terra, e un’intera società, come liberata da omertà e violenza. Per chi come me li ha vissuti, gli anni del magistrato che operava semplicemente «…per spirito di servizio » furono, insieme, il culmine di una lotta per la giustizia sociale e il sacrificio di vite impeccabilmente spese per la legalità.
Li vedevamo sfrecciare, noi palermitani, i giudici con le loro scorte, sulle strade che conducono al Palazzo di Giustizia. E non si fermarono mai, Falcone e Borsellino, a esercitare in quelle stanze i compiti e le funzioni del diritto. Furono innovativi, cambiando i metodi d’indagine e propiziando riforme. Segnarono una stagione per il fatto stesso di partecipare al pool anti- mafia ,gruppo di magistrati che portò all’istruzione del Maxi processo di Palermo.
Nato da un’idea di Rocco Chinnici, dopo il suo assassinio venne sviluppato e reso ancor più operativo da Antonino Caponnetto a partire da un nucleo originario composto dai giudici istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. Uno straordinario gruppo di lavoro che operò dal novembre 1983 al marzo 1988, quando venne sciolto dal successore di Caponnetto, Antonino Meli. Falcone, però, aveva capito bene l’importanza della condivisione dei filoni di indagini e sentiva addosso il rischio di perdere la vita per mano della mafia. Erano anni scanditi da omicidi crudeli, decisi dall’anti-Stato per consolidare un sistema criminale di controllo territoriale. Seguirono, la creazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) e delle Direzioni distrettuali antimafia (Dda), ideate da Giovanni Falcone mentre ricopriva l’incarico di Capo degli Affari Penali al Ministero della Giustizia. Purtroppo, però, politica e magistratura (e, di conseguenza, opinione pubblica) sempre più spesso si scontravano e non dialogavano.
E così mentre Falcone «… inseguiva i soldi» delle cosche che conducevano a capire e sventare i piani di una spietata finanza speculativa e ai rifugi dorati di capomafia ormai insediati nell’ombra in ogni parte del mondo, doveva anche difendersi da attacchi ideologici al limite della sostenibilità. Insieme al collega Borsellino, fratello nell’esperienza lavorativa e umana, sperimentava il più grande dei disagi: la mancanza di fiducia. Una lotta impari in cui tutti sembravano perdere, tranne la mafia che preparava gli attacchi feroci del 1992. Sento, ripercorrendo quei decenni, l’imperativo morale della narrazione: che non si esaurisca mai il compito di spiegare alle nuove generazioni la realtà rivoltante della mafia più a fondo degli episodi che leggeranno sui libri di storia.
A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, una riflessione e, da uomo politico, un impegno, mi sembrano essenziali: operare con determinazione per rinsaldare il patto di fiducia tra cittadini e istituzioni, nelle cui crepe si insinuarono i progetti di morte delle cosche. E questo perché avverto il rischio di un’incolmata distanza fra cittadini e Stato, soprattutto per la precarietà in cui troppi sprofondano in relazione ai propri diritti fondamentali: sussistenza, lavoro, casa, salute, giustizia... Ricordare Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, le loro scorte e tutte le vittime della violenza mafiosa ha e avrà senso solo custodendo e interiorizzando la legalità come bene comune, in un agire che non lascia indietro nessuno.
Falcone era un uomo buono e sobrio, capace però di provocazioni intelligenti e sferzanti. Diceva: «Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma». Nella lotta alla mafia, come in un’azione politica degna di questo nome, il dovere è più che mai quello di dare, nelle giuste forme, tutta la forza che serve alla sostanza delle scelte di giustizia, insieme e accanto alla nostra gente.
Senatore M5s, segretario Commissione Finanze