Analisi. Contro la disparità di genere si deve rivoluzionare il lavoro
In Italia nascono sempre meno bambini. Nel 2015 le nascite hanno toccato un nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia, solo 8 bambini nati ogni 1.000 abitanti. Se confrontata con altri paesi come l’Irlanda (14 bambini) o la Francia e il Regno Unito (12 bambini) la criticità della situazione italiana appare evidente. Un Paese che invecchia progressivamente e che non offre grandi opportunità ai giovani: dopo un decennio dall’inizio della crisi quasi 4 giovani su 10 sono ancora alla ricerca di un posto di lavoro. La tentazione di attribuire la responsabilità di questo stato di cose esclusivamente agli effetti della crisi economica è forte, ma rischia di portare fuori strada e allontanare l’attenzione dalla questione fondamentale del perché in Italia le famiglie facciano pochi figli. Le cause della bassa natalità sono state a lungo studiate dagli esperti. Tra le spiegazioni più tradizionali vi sono l’incremento dell’età media delle donne al primo parto e la mancanza di servizi di cura all’infanzia, recentemente tuttavia sono state avanzate ipotesi nuove e più interessanti. Ad esempio, nei confronti internazionali sull’utilizzo del tempo e la divisione del lavoro all’interno delle famiglie (si veda in proposito uno studio di Burda, Hamermesh e Weil The distribution of total work in the Eu and the Us), le donne italiane risultano essere quelle che complessivamente lavorano di più, cioè quelle che oltre al lavoro svolto fuori dalle mura di casa si trovano ad assolvere gran parte del lavoro domestico e di cura dei figli.
Gli studi sui tempi di lavoro e le pratiche organizzative mostrano invece, anche se non esclusivamente per l’Italia, i limiti di un’organizzazione del lavoro disegnata prevalentemente sulle esigenze degli uomini, in cui i tempi di lavoro, i percorsi di carriera e la definizione degli obiettivi da raggiungere sono poco funzionali alle esigenze di conciliazione tra lavoro e famiglia (oltre a ricadere principalmente sulle spalle delle donne). Nel contesto appena descritto, la scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro e il declino della fertilità, che da decenni caratterizzano l’economia italiana, non dovrebbero destare particolare sorpresa. Per invertire questo trend, negli ultimi decenni la Commissione Europea ha emanato una serie di direttive e di raccomandazioni ai paesi membri cercando di promuovere una migliore conciliazione fra lavoro retribuito e responsabilità familiari. In particolare, le raccomandazioni riguardano l’estensione del periodo di maternità, una ripartizione più equilibrata del congedo parentale tra uomini e donne, un’assistenza all’infanzia in grado di coprire almeno il 90% dei bambini di età compresa fra i 3 anni e l’età dell’obbligo scolastico, e per almeno il 33% dei bambini di età inferiore ai 3 anni.
Tuttavia, sebbene non vi siano dubbi sul fatto che le politiche di conciliazione possano fornire un valido contributo nel ridurre il gender gap nel mercato del lavoro, il nodo principale delle pari opportunità sembra riguardare più da vicino proprio le modalità con cui il lavoro è organizzato all’interno delle aziende. In altre parole, ci si domanda se i percorsi di carriera, l’organizzazione dei tempi di lavoro, l’individuazione e la remunerazione degli obiettivi siano neutrali rispetto al genere, o siano piuttosto definiti secondo modalità che premiano maggiormente gli uomini. In un recente studio pubblicato sulla rivista Vita e Pensiero (Lucifora e Vigani 'Lavoro più family-friendly, quando il capo è donna') abbiamo analizzato il legame tra leadership femminile, modalità di organizzazione del lavoro e discriminazione di genere in un campione di lavoratori e imprese europee. I risultati mostrano come nelle imprese in cui l’orario di lavoro è organizzato su tempi lunghi e poco flessibili, in cui gli avanzamenti di carriera e gli incentivi monetari sono definiti su obiettivi che tendono a premiare la competitività piuttosto che la collaborazione, ebbene le donne, soprattutto quelle con figli, indipendentemente dall’impegno e dalle capacità, risultano svantaggiate.
Al contrario, ambienti di lavoro con una quota maggiore di donne in posizioni manageriali e un’organizzazione più 'family-friendly' (orari flessibili e conciliazione vita-lavoro) contribuiscono a ridurre le differenze di genere. In altre parole, per un’effettiva rimozione delle disparità di genere non basta più promuovere la partecipazione femminile e monitorare i differenziali retributivi tra uomini e donne, piuttosto pare necessario un profondo ripensamento delle modalità di organizzazione del lavoro. Da questo punto di vista, le tradizionali politiche di pari opportunità, che intervengono principalmente sulle differenze di genere nell’allocazione e nella remunerazione dei fattori, si rivelano sempre meno efficaci nell’eliminare le diseguaglianze di genere. La Legge di Stabilità e i decreti attuativi recentemente varati hanno introdotto provvedimenti per lo sviluppo del welfare aziendale cercando di creare valore attraverso agevolazioni fiscali finalizzate alla promozione di servizi a sostegno delle attività di cura alle famiglie (asili nido aziendali, babysitter, attività ricreative e borse di studio).
Sebbene questo segnali una rinnovata sensibilità della politica nei confronti delle politiche di conciliazione, mostra anche i limiti dell’intervento pubblico per correggere le differenze di genere che originano da un’organizzazione del lavoro 'gender biased' (cioè con un pregiudizio di genere, ndr) nelle imprese. Da questo punto di vista le nuove tecnologie digitali possono venire in aiuto delle donne. Forme di organizzazione del lavoro più innovative e flessibili, come il telelavoro e lo smartworking, aprono spazi per superare la cultura del presidio sul posto di lavoro per concentrarsi invece sulla valutazione per obiettivi. Questi nuovi modelli organizzativi, se declinati in un’ottica di genere, possono contribuire ad aumentare la partecipazione delle donne, garantire una migliore conciliazione vita-lavoro delle famiglie, aumentando, al tempo stesso, la produttività aziendale. In conclusione, il futuro delle pari opportunità di genere passa per la diffusione di una cultura di azienda, di cui peraltro si intravedono già alcuni incoraggianti segnali, che faccia proprio l’obiettivo di eliminare il 'gender bias' dall’organizzazione del lavoro e la sfida posta dalle nuove tecnologie e dalle nuove professioni della gig-economy per valorizzare meglio i talenti (anche) delle donne.
*Università Cattolica del Sacro Cuore