Figli & società. Contro il calo delle nascite servono famiglie più unite
Non c’è una sola ragione che spiega il calo delle nascite in Italia e in Europa, come non c’è una sola cura contro l’inverno demografico. Eppure il mondo delle culle sempre più vuote è unito da una costante che dovrebbe far riflettere su un aspetto che troppo spesso si tende a non considerare decisivo: il fattore culturale, oltre alle ragioni economiche e materiali. Una recente ricerca del "Global burden of disease" e pubblicata sulla rivista scientifica Lancet ha rivelato che in quasi la metà delle nazioni del mondo il numero medio di figli per donna è ormai inferiore a 2,1, il livello considerato decisivo per garantire l’equilibrio tra le generazioni. In Europa non c’è più alcun Paese con un tasso di fecondità superiore a questa cifra – che ha un valore statistico ma allo stesso tempo altamente simbolico – mentre anche gli Stati Uniti d’America stanno conoscendo un processo di riduzione delle nascite significativo. Le aree del mondo con più nonni che nipoti, insomma, si espandono. Un Paese o un Continente più anziano si prepara a sperimentare problemi di crescita, indebitamento e sostenibilità dei sistemi di protezione sociale e, in prospettiva, maggiori tensioni. Per questo tutti gli organismi internazionali parlano di emergenza nei contesti in cui la gelata delle nascite è più drammatica.
In questo scenario l’Italia è tra le realtà che destano maggiore preoccupazione. Il tasso di fecondità è sceso a 1,32 figli per donna, a mancare non sono più solo i secondi figli, ma cominciano a essere drammaticamente “carenti” anche i primi, con la percentuale di donne che non diventano madri salita al 22% per la generazione nata nel 1970. Dopo tanti anni di denatalità le donne in età feconda sono così poche che è impossibile pensare di ribaltare la prospettiva demografica in breve tempo. Il fatto che l’Italia non sia un caso isolato nel panorama della denatalità dice però che anche il tono delle proposte per contrastare il declino deve poter fare un salto di qualità. Ci sono Paesi in Europa che ottengono risultati migliori grazie a maggiori servizi per le famiglie, aiuti ai genitori, incentivi fiscali. Le ricerche più recenti dimostrano che lo sviluppo inizialmente porta con sé denatalità, ma che per invertire la tendenza serve spingere ancora di più sullo sviluppo stesso, elevando la qualità dei servizi e delle opportunità per la famiglia. Tuttavia la realtà dimostra che questo non è sufficiente, se anche i Paesi più "virtuosi" non riescono ad avere una fecondità superiore al tasso di sostituzione, e se un sostanziale contributo alle nascite arriva dalla maggiore prolificità della popolazione immigrata.
È vero che il desiderio di genitorialità resta alto anche tra i più giovani, tuttavia si dovrebbe notare che la lista delle condizioni che si ritiene vadano soddisfatte prima della nascita di un figlio (o mantenute dopo) sembra allungarsi sempre di più. È in crisi il lavoro stabile e l’insicurezza domina il presente come il futuro. Il calo dei matrimoni rivela che la stabilità dei legami affettivi è sempre meno una prospettiva condivisa, invece le famiglie numerose si formano proprio in un contesto di solida tenuta familiare. Lo sviluppo e la società dei consumi hanno radicato l’idea che conti più investire sulla qualità che sulla quantità dei figli, ed è comprensibile, tuttavia questo, in un contesto di risorse limitate, ha trasformato i bambini in qualcosa di sempre più simile a un bene di lusso, quasi un "optional" da aggiungere a molte altre cose considerate irrinunciabili. In un simile contesto non servono solo aiuti e sostegni, è chiaro che occorra qualcosa capace di cambiare radicalmente prospettiva culturale, una tensione ideale fatta di testimonianza, una "spinta gentile" che suggerisca di guardare il mondo ripartendo dai figli, dai fratelli, dalla forza e dalla bellezza di una famiglia unita.