Opinioni

Spazio alla società civile africana. Contagio da fermare

Giulio Albanese martedì 2 ottobre 2012
Quanto è avvenuto domenica a Nairobi, nella chiesa anglicana di san Policar­po, è un episodio aberrante che solo menti perverse potevano ordire, e che rimanda a scenari inquietanti. Si è consumato un tri­plice sacrilegio: contro i cristiani, contro il sentimento religioso di tutti e nei confronti di vite innocenti. E molto probabilmente la responsabilità ricade sui famigerati al-Sha­baab, i ribelli jihadisti somali fautori del­l’imperio assoluto della sharia (la legge isla­mica) e, da tempo, autori di attacchi anche in terra keniota dopo l’offensiva militare, lanciata dalle truppe di Nairobi in Somalia. Per questi criminali a piede libero le chiese cristiane sono l’obiettivo privilegiato per o­steggiare il nuovo corso avviato a Mogadiscio con l’elezione del presidente Hassan Skeikh Mohamoud, sostenuto dai governi occi­dentali. E anche se nella loro roccaforte so­mala di Chisimaio sono entrate da ieri le truppe di Nairobi, non c’è da illudersi: sgo­minarli non sarà facile finché i giochi tra gli opposti schieramenti non verranno sma­scherati. La Somalia è sempre più parte di uno scac­chiere geopolitico dove, agli anta­gonismi ancestrali tra i vari clan, si associano interessi di altra na­tura. Oltre ai “signori della guer­ra” – in antitesi a qualsiasi organo statuale, avendo il controllo di scampoli variegati di territorio a cui non intendono rinunciare – vi sono potenze straniere che ane­lano alle immense risorse energe­tiche del sottosuolo che vanno dal petrolio al gas e all’uranio. A ciò si aggiunge l’irrequietezza della sponda yemenita da cui salpano sistematicamente pattuglie di e­stremisti lautamente foraggiati dal fronte salafita che si sta sempre più radicando nell’Africa setten­trionale a seguito delle rivolte che hanno interessato, con modalità diverse, Egitto, Libia e Tunisia. La posta in gioco è alta, non fos­s’altro perché fin quando la So­malia sarà parcellizzata, pur a­vendo un governo internazional­mente riconosciuto, sarà ostaggio degli estremisti. Purtroppo, è il ca­so di dirlo, gli errori commessi dal­la diplomazia statunitense nel di­cembre del 2006, quando non ri­conobbe all’interno delle Corti i­slamiche la componente mode­rata allora prevalente che avrebbe potuto segnare la svolta, hanno fatto sì che gli shabaab monopo­­lizzassero la lotta armata contro le fragili istituzioni transitorie, a Mogadiscio e dintorni. Che fare allora, dal momento che al-Shabaab potrebbe continuare a colpire il Kenya e anche altre na­zioni, contaminando l’intera re­gione del Corno d’Africa? Politi­camente parlando, il sostegno al­le legittime autorità insediate a Mogadiscio è doveroso, ma esso non può prescindere da un’azione persuasiva che induca tutte le componenti all’interno della Somalia a dia­logare. Potrebbe, inoltre, apportare degli e­lementi di novità, di analisi e di proposta ai decisori politici un maggiore coinvolgi­mento della società civile africana. Essa ha dimostrato di saper contribuire, talvolta con sorprendente efficacia, alla vita politica, cul­turale ed economica della Somalia e dei Pae­si limitrofi, pagando spesso con la vita di al­cuni suoi esponenti di rilievo. Perché allora non proporre una conferenza di questi at­tori che operano nell’area – autorevoli orga­nizzazioni somale, etiopi, eritree, keniote, gibutine – affinché esprimano il proprio punto di vista sui processi di pacificazione in Somalia e nell’intero Corno d’Africa? L’e­sperienza di oltre vent’anni di guerra civile ha dimostrato che gli scontri armati che ci si illude di considerare "locali" causano vio­lenze, morte, abusi e un contagio che mina ogni processo di pacificazione. Solo una decisa azione per un dialogo in­clusivo potrà contenere il rischio della pro­gressiva militarizzazione di una fase come quella odierna, che dovrebbe essere emi­nentemente politica.