Quanto è avvenuto domenica a Nairobi, nella chiesa anglicana di san Policarpo, è un episodio aberrante che solo menti perverse potevano ordire, e che rimanda a scenari inquietanti. Si è consumato un triplice sacrilegio: contro i cristiani, contro il sentimento religioso di tutti e nei confronti di vite innocenti. E molto probabilmente la responsabilità ricade sui famigerati al-Shabaab, i ribelli jihadisti somali fautori dell’imperio assoluto della sharia (la legge islamica) e, da tempo, autori di attacchi anche in terra keniota dopo l’offensiva militare, lanciata dalle truppe di Nairobi in Somalia. Per questi criminali a piede libero le chiese cristiane sono l’obiettivo privilegiato per osteggiare il nuovo corso avviato a Mogadiscio con l’elezione del presidente Hassan Skeikh Mohamoud, sostenuto dai governi occidentali. E anche se nella loro roccaforte somala di Chisimaio sono entrate da ieri le truppe di Nairobi, non c’è da illudersi: sgominarli non sarà facile finché i giochi tra gli opposti schieramenti non verranno smascherati.
La Somalia è sempre più parte di uno scacchiere geopolitico dove, agli antagonismi ancestrali tra i vari clan, si associano interessi di altra natura. Oltre ai “signori della guerra” – in antitesi a qualsiasi organo statuale, avendo il controllo di scampoli variegati di territorio a cui non intendono rinunciare – vi sono potenze straniere che anelano alle immense risorse energetiche del sottosuolo che vanno dal petrolio al gas e all’uranio. A ciò si aggiunge l’irrequietezza della sponda yemenita da cui salpano sistematicamente pattuglie di estremisti lautamente foraggiati dal fronte salafita che si sta sempre più radicando nell’Africa settentrionale a seguito delle rivolte che hanno interessato, con modalità diverse, Egitto, Libia e Tunisia.
La posta in gioco è alta, non foss’altro perché fin quando la Somalia sarà parcellizzata, pur avendo un governo internazionalmente riconosciuto, sarà ostaggio degli estremisti. Purtroppo, è il caso di dirlo, gli errori commessi dalla diplomazia statunitense nel dicembre del 2006, quando non riconobbe all’interno delle Corti islamiche la componente moderata allora prevalente che avrebbe potuto segnare la svolta, hanno fatto sì che gli shabaab monopolizzassero la lotta armata contro le fragili istituzioni transitorie, a Mogadiscio e dintorni.
Che fare allora, dal momento che al-Shabaab potrebbe continuare a colpire il Kenya e anche altre nazioni, contaminando l’intera regione del Corno d’Africa? Politicamente parlando, il sostegno alle legittime autorità insediate a Mogadiscio è doveroso, ma esso non può prescindere da un’azione persuasiva che induca tutte le componenti all’interno della Somalia a dialogare. Potrebbe, inoltre, apportare degli elementi di novità, di analisi e di proposta ai decisori politici un maggiore coinvolgimento della società civile africana. Essa ha dimostrato di saper contribuire, talvolta con sorprendente efficacia, alla vita politica, culturale ed economica della Somalia e dei Paesi limitrofi, pagando spesso con la vita di alcuni suoi esponenti di rilievo. Perché allora non proporre una conferenza di questi attori che operano nell’area – autorevoli organizzazioni somale, etiopi, eritree, keniote, gibutine – affinché esprimano il proprio punto di vista sui processi di pacificazione in Somalia e nell’intero Corno d’Africa? L’esperienza di oltre vent’anni di guerra civile ha dimostrato che gli scontri armati che ci si illude di considerare "locali" causano violenze, morte, abusi e un contagio che mina ogni processo di pacificazione.
Solo una decisa azione per un dialogo inclusivo potrà contenere il rischio della progressiva militarizzazione di una fase come quella odierna, che dovrebbe essere eminentemente politica.