Opinioni

L'OSPITE - Fine vita: perché dire sì alla norma sulle «Dat». Il confine necessario tra leggi e sentenze

Antonio Mazzocchi, deputato del Pdl venerdì 25 marzo 2011
In un momento in cui si è riaperto il dibattito sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento (le «Dat», impropriamente chiamate «biotestamento»), e si punta a proporlo come uno scontro tra credenti e non credenti, credo sia opportuno ribadire che tutti, al di là delle proprie scelte di coscienza, razionalmente possano e debbano convergere su un punto: la necessità, ormai divenuta improcrastinabile, di legiferare in una materia così delicata per impedire che una giurisprudenza troppo "creativa" continui a sentirsi legittimata ad arrogarsi di un potere che non le spetta e, conseguentemente, continui a violare la netta separazione tra legislazione e giurisdizione. La sede giurisdizionale non può essere la sede per decidere sui diritti fondamentali quali quello della vita, della salute, della dignità umana.Ora più che mai, in quanto rappresentanti del Paese, noi parlamentari dobbiamo assumerci le nostre responsabilità per il bene comune, cercando quelle che sono le forme più consone affinché il Paese possa rimanere unito e non vi sia alcun conflitto etico, riconoscendo – in scienza e coscienza – il limite del confine tra vita e morte, tra diritto alla vita e diritto all’autodeterminazione, tra libertà dell’individuo e responsabilità collettiva.Credo che tutti, in qualche modo, si siano posti di fronte al difficile interrogativo di quale sia questo confine.Credo anche che molti non siano mai riusciti a trovare una risposta e preferiscano che su tale materia si continui a tacere. Se così fosse, non solo rischieremmo di renderci complici del prossimo caso Englaro, consentendo a una lobby priva di qualsivoglia legittimazione di introdurre abusivamente nel nostro Paese l’eutanasia senza il benché minimo rispetto del ruolo del Parlamento, ma potrebbe, sempre per volontà di qualche magistrato, deragliare anche il concetto stesso dell’autodeterminazione.Ed è proprio sulla scia di queste considerazioni che ritengo che ora sia il momento giusto, visto anche l’attenuarsi della forte sollecitazione della cronaca, per far sì che non prevalga più la tesi: meglio nessuna legge che una legge non gradita in quanto ritenuta "illiberale". Il testo che è in discussione alla Camera non è affatto una cattiva legge: esso è il frutto di una lunga discussione incentrata sul difficile tentativo di considerare l’intera casistica delle diverse situazioni.Non a caso questa legge, vietando al contempo eutanasia e accanimento terapeutico, riconosce il principio fondamentale della libertà di cura. Non a caso questa legge, lasciando al medico la possibilità di attualizzare le Dat, si è posta il problema che, trattandosi di una scelta compiuta ora per allora in diverse condizioni psicologiche e in virtù di eventuali cambiamenti scientifici dovuti ai progressi della tecnica e della medicina, l’idea stessa del paziente avrebbe potuto essere un’altra.Il diritto di autodeterminazione non può prevalere ed essere vincolante, perché se così fosse ci renderemmo tutti ciechi di fronte a eventuali situazioni cliniche mutate e all’evoluzione scientifica e tecnologica intervenuta, riducendo così il ruolo del medico a quello di mero esecutore.Io credo che se si mettono da parte pregiudizi di stampo ideologico abbiamo ancora un margine per apportare tutte quelle piccole modifiche necessarie per rendere il più chiaro possibile il provvedimento, e al contempo, sciogliere quei nodi che impediscono una posizione ancora più largamente unitaria.Mi appello dunque, da deputato, a tutte le forze politiche affinché l’attuale periodo di riflessione non si traduca in un nulla, ma possa rappresentare un’opportunità per approfondire nel merito e con il confronto costruttivo e trasversale i nodi fondamentali di una legge necessaria. Una legge che riteniamo possa e debba salvaguardare la libertà e la dignità della persona umana tutelando il diritto alla vita che appartiene a tutti, credenti e non credenti.