Un incontro che mi ha cambiato la VITA. «Con Todorov la mitezza di un'amicizia»
Lisa Ginzburg (1966), scrittrice e traduttrice, ha pubblicato i romanzi Desiderava la bufera (2002), Per amore (2016, Au pays qui te ressemble, 2019), Cara pace (2020, dozzina premio Strega 2021, Premio Chianti 2021, tradotto in Brasile, Francia, Germania, presto in Spagna). Un nuovo romanzo uscirà per Rizzoli a ottobre 2023. Le raccolte di racconti Colpi d’ala (2006, Premio Teramo 2007) e Spietati i mansueti (2016, Premio Renato Fucini 2017); i memoirs Malia Bahia (2007), Buongiorno mezzanotte, torno a casa (2017) e Pura invenzione. Dodici variazioni su Frankenstein di Mary Shelley (2018); le biografie Anita. Storia di Anita Garibaldi (2005), Jeanne Moreau. Cercavo un’immensità. Vita di Clarice Lispector (2022). Collabora con Avvenire, L’Espresso, Gazzetta del Mezzogiorno, Il Foglio. Vive e lavora a Roma
Ci sono incontri che cambiano la vita. A volte lo si capisce subito, in altri casi serve del tempo. Abbiamo chiesto ad alcuni scrittori italiani di raccontare in prima persona per “Avvenire” le ragioni di una relazione che ha rappresentato una tappa significativa nella loro vita, perché ha suggerito un cambio di direzione, ha fornito la conferma della bontà di un percorso oppure ha portato un modo nuovo di guardare alle cose di tutti i giorni.
Per una di quelle combinazioni dell’esistenza capaci di venire comprese solo quando lette a posteriori, conobbi Tzvetan Todorov lo stesso giorno in cui mi accadde di fare un altro incontro, decisivo per il futuro della mia vita personale. Pura coincidenza, eppure sincronia che anni dopo, nel momento in cui la realizzai, mi sorprese facendomi riflettere. Anche quando Tzvetan divenne un amico (un vero amico, come di rado la vita ne regala), un’immagine di lui “paterna” perché per me “demiurgica” è rimasta, lì a campeggiare chiara nella testa. Come una sorta di nume tutelare: qualcuno che prima ancora di divenire amici, era come avesse chiaro il mio cammino, certi snodi cruciali che sarebbero sopraggiunti. Occasione dell’incontro, un’intervista televisiva che feci a Todorov a Perugia nel 2003 (in aprile, ricordo). Con l’operatore e un assistente eravamo arrivati in macchina da Roma, in anticipo, io già emozionata (un’emozione quella anche presaga). Todorov si trovava là invitato a un Festival, e quella che mi accingevo a fargli sarebbe stata una tra numerose interviste realizzate per una trasmissione di cui ero la conduttrice. “Mente nomade”, il titolo del programma televisivo: scambi convergenti sul tema e comune denominatore del nomadismo, sia geografico (fisico), che intellettuale.
Sotto forma di casualità (presaga, e perciò “fatale”), lo stesso argomento – un’erranza che è del pensiero prima ancora che del corpo nel suo spostarsi, un vagare che appartiene all’indole interiore prima ancora che alle traiettorie della biografia – già mi aveva avvicinato a Todorov. Se anche quel giorno, ascoltandolo dal vero, di più ancora ne avrei ammirato l’intelligenza smagliante, profonda, umana in modo straordinario, non era la prima volta che incontravo il suo pensiero. Anni (sette anni) addietro, in qualità di direttrice editoriale temporanea della casa editrice Donzelli, avevo convinto l’editore Carmine Donzelli ad acquisire i diritti de L’uomo spaesato, libro di Todorov uscito in Francia nel 1996. Libro il cui tema conteneva perfettamente il senso stesso del nostro futuro incontro e della nostra sintonia, ma questo lo avrei capito molto dopo. Ora, a Perugia, mentre chiacchieravamo nell’attesa che l’operatore televisivo allestisse il set per la nostra conversazione, raccontai a Tzvetan di essere stata “artefice” di quella traduzione di un suo libro. La luce che vidi accenderglisi nei grandi occhi chiari (spalancati, come attoniti, insieme sognanti e attentissimi) l’avrei vista baluginare nel suo sguardo altre volte, in seguito. Esprimeva sorpresa, gratitudine, ma anche un’altra componente, molto rara a trovarsi.
La mitezza dell’amicizia: ovvero la gratuità (nel senso di totale assenza di calcolo, o di intenzione) sotto la cui egida in modo miracoloso accade talvolta che si sviluppi e maturi l’intesa tra due persone affini e istintivamente prossime. Quella propensione disinteressata, garanzia per un rapporto sincero di nascere, venire coltivato, poi nel tempo mantenuto solido e sano, è tra le cose che ho imparato da Tzvetan Todorov. Quell’insegnamento serbo nel ricordo soprattutto: il valore che per lealtà verso la vita va dato a un incontro e a un rapporto, se si è capito che quell’incontro e quel rapporto valgono, possiedono un senso. E quanto il trovarsi implichi un reciproco riconoscersi, e prima ancora, il riconoscere l’altro prestando massima attenzione e importanza alla sua persona.
Nel 2010, sette anni dopo il nostro dialogo in Umbria, mi trasferii in pianta stabile a Parigi, e dopo qualche mese, vincendo indugi e timidezza, mi procurai il numero di Tzvetan e lo cercai. Fui sorpresa nel sentire al telefono che si ricordava perfettamente di me. Certo, porto un cognome che non è facile sfugga, ma la sua memoria rimandava ad altro: era quella, infallibile e personalissima, dell’amico speciale che di lì a poco lui sarebbe diventato per me. Mi sentii considerata, vista. Vista non di sfuggita, non per l’apparenza di un cognome: vista io, me per come ero. «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza» scrive Adorno in Minima moralia: una considerazione che collima perfettamente con il ricordo che ho di Tzvetan e degli anni in cui a Parigi ci siamo frequentati, tutti e due, come per un tacito accordo, maneggiando la nostra amicizia con cura, delicatezza, custodendone il seme, proteggendolo così da lasciarlo maturare.
Quando un evento inatteso modificò all’improvviso la sua sfera personale, lui senza inutili pudori ebbe la sincerità di mostrarsi vulnerabile, permettendo a chi gli voleva bene di stargli vicino. Quando un altro evento, questo solo tragico, ha spezzato la mia vita, a sua volta Tzvetan mi è stato accanto, con la sincerità e l’empatia che solo possono essere di chi conosce quel che è umano, perché è l’umano a interessarlo, e a quell’ “umano”, con integra coerenza, ha stabilito chissà quando di mantenersi fedele. In linea con la traiettoria dei suoi libri e della sua visione della cultura, il privilegio dell’amicizia di Todorov è stato per me una lezione di umanità. Mi ha mostrato che si può lavorare con le parole e con l’intelletto, senza per questo dovere trincerarsi in una concezione solo “mentale” degli altri e delle cose. Restando percettivi, in ascolto, in dialogo, come lui stesso ha fatto magistralmente in virtù di un’incessante capacità di immedesimazione con vite e opere di autori i più “colpiti” dalla Storia (Marina Tzvetaeva e Germaine Tillon, due nomi tra i tanti).
Per quanto consapevole della sua notorietà internazionale, per quanto conscio di possedere lo spessore intellettuale unico che era all’origine di quella fama, Tzvetan viveva con semplicità, ospitale e affettuoso con chi gli andava a genio. Un vero amico, generoso, sollecito: attento e presente senza mai essere invadente – anzi con un senso molto calibrato del tempo, il suo passare, arrestarsi, generare silenzi e pause, poi riprendere a trascorrere. Come talvolta l’amore, anche l’amicizia può comporsi di presagi, promesse, epifanie, movimenti in avanti e all’indietro lungo la linea della vita. Quando ci rincontrammo a Parigi, già al primo appuntamento io gli confessai i miei timori di “spatriata”: avevo appena lasciato Roma, pronta a installarmi in Francia per motivi di lavoro ma apprensiva, nella paura che l’Italia mi sarebbe mancata molto (come in effetti è stato). Tzvetan provò a rassicurarmi dandomi un consiglio. “Abita Parigi come fosse una città italiana, solo molto a Nord” mi disse con un sorriso, la bella voce dal timbro caldo, il francese perfetto e senza accento – in nessun modo alterato dalle sue origini “spatriate” di “uomo spaesato”. Subito quel consiglio risuonò illuminante, e nei miei anni francesi in molti modi ho cercato di seguirlo.
Racchiudeva nel suo enunciato tanti dei temi del Todorov pensatore e scrittore: l’idea di una geografia senza confini, la fede nel cosmopolitismo, l’importanza di saper affrontare lo spaesamento allenandosi a sentirsi “a casa” lontano da casa, perché una vera casa non c’è, e la contemporaneità questo ci chiede (oggi ancor più di allora, se possibile): che le radici, tra sedimenti e innesti, si trasformino in rizomi. Quella sera, mentre passeggiavamo per le stradine intorno al Théatre dell’Odéon, pensai che un cerchio si chiudeva. Quattordici anni prima ero stata tramite di una traduzione del saggio di Tzvetan sullo spaesamento, e ora di quello stesso spaesamento lui con la sua raccomandazione mi offriva la lezione più preziosa.
Passò il tempo (anni), di nuovo ci trovammo a passeggiare insieme vicino a un altro Teatro (della Bastille, questa volta) quando improvvisamente, senza nemmeno inciampare, Tzvetan cadde su se stesso. Prima avvisaglia del terribile male ereditario che lo portò via da questo mondo, il 7 febbraio del 2017. Anche allora, nei mesi che precedettero la morte, non ebbe remore nel mostrarsi come era: inerme, fragilissimo, piegato dalla malattia. Sino all’ultimo, ben cosciente che la cura dei rapporti umani è un talento. Un mosaico di attenzioni, il cui primo tassello sta nell’accogliersi e vedersi l’un l’altro come si è. Perché si è.