Vescovi latinoamericani. Con lo spirito di Aparecida cresce la Chiesa di domani
Papa Benedetto con l’allora cardinale Bergoglio ad Aparecida
E Benedetto XVI lasciò aperto e disse: «Fate voi, voi fate!». Era il maggio 2007 all’inaugurazione dei lavori di Aparecida, e questo fu l’inizio. Anzi il crinale, per un prima e per un dopo, non solo per la Chiesa dell’America Latina. E fu con adesione generosa che un cardinale bonaerense di nome Jorge Mario Bergoglio – candidato alla pensione più che alla successione petrina – raccolse l’apertura di quell’incentivo. In quella quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e dei Caraibi, nella riflessione comune sul percorso fatto e da fare – in un soprassalto di lucidità condivisa –, si era ridestato e ricompreso nella disposizione a ricevere dal basso, dalla realtà del popolo di Dio, un dinamismo apostolico. Si comprese lì che era giunto il momento di liberarsi dalle false dialettiche intraecclesiali e di uscire dal ghetto delle battaglie di riconquista. Fu questo un «momento di grazia per la Chiesa», ebbe a riconoscere già all’indomani della sua conclusione lo stesso Bergoglio. Di quel «momento di grazia», su quest’altra riva dell’Oceano non se ne accorse quasi nessuno.
A dire il vero, degli orizzonti e delle prospettive ecclesiali aperte da quell’evento l’allora arcivescovo di Buenos Aires avrebbe voluto parlare al Concistoro previsto nel novembre di quello stesso anno. Non gli fu possibile. Prima di ritornare a casa da Roma ne descrisse tuttavia la filigrana in un’unica intervista che concesse al mensile 30Giorni. Ma bisognerà attendere ancora altri sei anni, quando per puro miracolo il cardinale di Buenos Aires divenne Pietro sfuggendo ai calcoli delle consorterie, perché Aparecida – e ciò che questa ancora significa per lo sguardo sulle istanze della realtà, per i punti-chiave nell’immanente «bisogno di misericordia e coraggio apostolico» – come «lampada non sotto il moggio» venisse offerta a paradigma della missione della Chiesa universale. Oggi, a quattro anni dall’elezione di Francesco, nuove nomine cardinalizie puntano a guardare alle esigenze dei segni dei tempi e non agli egocentrismi ecclesiastici. Nomine che s’intrecciano ora con un passaggio di rilievo per la Chiesa italiana. E che tutto ciò sia coinciso proprio in questa ricorrenza – in cui sono scoccati dieci anni da quando Benedetto XVI diede libero mandato, nella fiducia allo Spirito Santo, ai lavori di quella storica assemblea episcopale – ha pure il suo significato.
Quello che caratterizzò l’assemblea dei vescovi ad Aparecida fu la presa di coscienza di trovarsi in «un cambiamento d’epoca non in un’epoca di cambiamento». La precedente conferenza del Celam del (1992, Santo Domingo) aveva tirato le somme di un documento preconfezionato, in un’ottica che risentiva dei condizionamenti ideologici nelle dinamiche ecclesiali dei passati decenni. Ad Aparecida i pastori latinoamericani più avvertiti avevano intuito l’urgenza di una conversione pastorale per lasciar riaffiorare il volto più intimo della Chiesa, liberandola dalla gabbia dell’omologazione, dei riduzionismi ideologici e dei clericalismi vecchi e nuovi. Riscoprirne il volto più intimo significava riconoscere che quando la Chiesa si erige in "centro" si funzionalizza, pretende di avere luce propria e smette di essere quel misterium lunae del quale parlano i Padri della Chiesa.
E dalla riscoperta della sua natura riemergevano il senso e la modalità della sua missione. Se la Chiesa, che è di Cristo, può vivere solo del suo riflesso, essa esiste solo come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio, ed è qui il proprium della sua missione, frutto della grazia. «Se segue il suo Signore, la Chiesa esce da se stessa, non rimane chiusa nella propria autoreferenzialità... Per rimanere fedeli bisogna uscire. Rimanendo fedeli si esce. Questo dice in fondo Aparecida. Questo è il cuore della missione». E sono queste considerazioni fatte allora dal cardinale di Buenos Aires che descrivono lo sguardo impresso in quell’evento ecclesiale. Evento nel quale hanno avuto peso due contingenze affatto secondarie: il luogo e la modalità dei lavori. Per la prima volta i vescovi non erano partiti da qualcosa di preconfezionato ma da un dialogo aperto tra le 23 conferenze episcopali latinoamericane.
Nel clima di collaborazione fraterna e di disposizione a ricevere tutto ciò che veniva dalla realtà vissuta dal popolo di Dio non si era fatta una sintesi delle differenti molteplicità ma l’unità che è propria dell’«unico suo artefice», che è lo Spirito Santo, compiendo così la dinamica di collaborazione che è cifra degli albori delle assemblee ecclesiali. Il suo svolgersi per la prima volta in un santuario mariano, in mezzo alle preghiere dei fedeli, aveva poi contribuito a far riconoscere che il servizio dei pastori nella Chiesa-popolo di Dio è per una missione a partire dal popolo, assumendone la cultura e optando per la centralità dei poveri. Una missione non regolatrice ma facilitatrice della fede. E un santuario mariano non poteva che indicarne lo stile. «La Chiesa è madre, genera, fa crescere, conduce per mano», e lo stile della sua missione non può che essere quello di una madre, che si fa vicina con tenerezza».
Questo in sintesi ciò che avvenne ad Aparecida, dove riaffiorava la visione della Chiesa e della sua missione espressa nei passaggi centrali della Lumen gentium e dalla Gaudium et spes, in un percorso che aveva assimilato l’esortazione sull’evangelizzazione di Paolo VI. «Colpisce che nel redigere il documento finale, che non chiude ma rimane aperto – affermava il cardinale Bergoglio nel 2008 –, Aparecida compia un salto indietro di trent’anni fino a uno dei documenti del magistero più belli e vigorosi: l’Evangelii nuntiandi, e che la sua ultima frase sia "recuperiamo il coraggio e l’audacia degli apostoli"».
Ad Aparecida si era recuperato questo coraggio apostolico. Bergoglio si era trovato nel cuore di quell’epifania. E nei 554 paragrafi del documento finale si trovano molte delle intuizioni che oggi vibrano nel suo magistero.
L’Evangelii gaudium è del resto una mescolanza dell’Evangelii nuntiandi e del documento di Aparecida. Se dunque con Aparecida era tramontata l’idea di una Chiesa protagonista, che identifica la propria missione con l’affermazione della propria rilevanza mondana, Aparecida non è da limitarsi ad archivio delle fonti del papato bergogliano. Ha una dimensione universale e attuale, perché non porta ricette ma chiavi, criteri per illuminare, per accendere il desiderio di liberarsi di tutto il superfluo e ritornare alle radici, all’essenziale della missione della Chiesa nel mondo. Soprattutto, Aparecida è la sete di vita cristiana ed ecclesiale autentica ridestata dalla grazia di una testimonianza incarnata oggi nel Successore di Pietro, che continua a seminare e a interpellare. A dieci anni da allora, la scintilla di quella epifania non si trova perciò nei nuovi conformismi, negli slogan "pappagalleschi" sulle periferie, i poveri e la Chiesa in uscita, nell’attesa che passi la stagione. Non si trova neppure nella riduzione ed esaltazione del Papa a personaggio mediatico per coprire l’inamovibilità di schemi e personali domìni, ma in chi, lasciandosi riformare dall’incontro con Cristo, è disposto a seguirlo senza condizioni sulle strade attuali del suo Vangelo. Come servi di Dio, non servili e non padroni della verità. Così la conversione pastorale, oggi come allora, concerne principalmente gli atteggiamenti e una riforma di vita, «ricordando che "pastorale" non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa».
Nel discorso del 2013 al Celam, ritornando da Pontefice ad Aparecida per la Gmg di Rio, e focalizzando i punti chiave di quell’evento in un discorso che anticipava ciò che avrebbe poi sviluppato nella Evangelii gaudium, Bergoglio metteva in chiaro quali fossero le tentazioni che possono mimetizzarsi nella dinamica missionaria e arrestare un processo di conversione pastorale – dall’ideologizzazione del messaggio evangelico al morbo del clericalismo –, ed esponeva i criteri ecclesiologici del discepolato missionario. Seguivano domande guida per esaminare l’assunzione dello spirito di Aparecida, «domande – disse – che come vescovi conviene ci poniamo frequentemente come esame di coscienza».
E che sono sempre attuali: «Chi è il principale beneficiario del lavoro ecclesiale, la Chiesa come organizzazione o il popolo di Dio nella sua totalità? Promuoviamo spazi e occasioni per manifestare la misericordia di Dio? Nella pratica, offriamo la Parola di Dio e i sacramenti con la chiara coscienza e convinzione che lo Spirito si manifesta in essi? Siamo ancora una Chiesa di padri e madri capace di riscaldare ed accendere il cuore? Che accompagni il cammino, mettendosi in cammino con la gente? In grado di andare al di là del semplice ascolto? Capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle? Li accompagniamo superando qualsiasi tentazione di manipolazione o indebita sottomissione?».
Ai vescovi disse poi che «non basta un leader nazionale se non c’è una rete di testimonianze regionali che assicurino dappertutto non l’unanimità ma la vera unità nella ricchezza della diversità». E qui ancora il riferimento al modo di ricevere la diversità di Aparecida: «Non diversità di idee per produrre documenti e ingigantire strutture, ma varietà di esperienze di Dio per favorire una dinamica vitale e una vera comunione», «tela», questa, «da tessere e ispessire», «con pazienza e perseveranza... perché una tela con pochi fili di lana non riscalda». Sull’oggi di Aparecida non si misura la tenuta di un pontificato, perché la Chiesa non la fa il Papa ma l’attrattiva suscitata dall’orizzonte e dal coraggio dei veri discepoli di Cristo, «nel minimo di strutture per il massimo di vita».