Biomedicina. Con il trapianto di utero ora un figlio in provetta
La biomedicina della procreazione riserva continue novità, spesso presentate come 'nuovi traguardi' o 'speranze aperte' per le coppie alla ricerca di un figlio ostacolata da qualche fattore di infertilità femminile e/o maschile, congenito o acquisito. A volte si tratta di risultati conseguiti attraverso l’implementazione di tecniche di 'procreazione medicalmente assistita' (Pma) già in uso, oppure dalla combinazione sequenziale di interventi chirurgici, endocrinologici, fertilizzativi e genetici. In questa seconda casistica rientra la gestazione a termine di un concepito a seguito di trapianto di utero in una donna priva di quest’organo dalla nascita o in conseguenza di una isterectomia totale, cui si aggiunge la fecondazione in vitro con trasferimento di embrione (Fiv-et). È quanto realizzato nei giorni scorsi per la prima volta in Italia all’Ospedale Cannizzaro di Catania, dove è nata Alessandra, figlia di una 31enne infertile perché affetta da una rara «agenesia mülleriana» ( Avvenirene ha dato notizia sabato 3).
Si tratta della Sindrome di Mayer-Rokitansky- Kuster-Hauser (Mrkhs; dal nome dei patologi clinici che l’hanno studiata nei secoli XVIII e XIX, ma già nota nell’antichità dai medici del Corpus ippocraticum, da Celso e da Sorano di Efeso), che nelle cronache diventa «Rokitansky ». Essa colpisce tra 1 su 4.000 e 1 su 10.000 neonate e, nella sua forma di tipo 1 (quella che coinvolge il solo apparato riproduttivo), consiste nell’assenza congenita dell’utero e di 2/3 della vagina, in presenza di ovaie funzionali e di un normale aspetto dei genitali esterni. La diagnosi è spesso ritardata sino alla pubertà (esito di indagini per assenza del menarca). Il trapianto di utero da donatrice vivente o deceduta ha aperto la possibilità di una gravidanza anche a donne affette da Mrkhs o che hanno subìto una isterectomia totale.
Sotto il profilo etico, occorre distinguere tra il trapianto di utero e le procedure di Pma utilizzate per la fecondazione e per l’instaurazione di una gravidanza. In sé considerato, il trapianto da corpo femminile a corpo femminile è lecito, in assenza di rischi sproporzionati per la donatrice e la ricevente e con i requisiti del consenso informato. Non si tratta, infatti, di un organo – come il cervello – che contribuisce alle dimensioni antropologiche cognitive, affettive, emotive, comportamentali e di memoria legate alla identità personale, né che è coinvolto nella relazione genetica tra genitore e figlio – come le ovaie e i testicoli –, perché l’utero è di supporto nutrizionale-metabolicoendocrino allo sviluppo prenatale del concepito ma non partecipa alla costituzione permanente del suo patrimonio genetico somatico e germinale.
I «Criteri di Montreal per la fattibilità etica del trapianto di utero» (2012-2013), riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale dei trapiantologi, stabiliscono, tra l’altro, che la ricevente del trapianto di utero deve essere «geneticamente femminile», «in età riproduttiva » e con «un fattore di infertilità uterino congenito o acquisito » non risolvibile altrimenti. Restano quindi esclusi il trapianto su soggetti geneticamente maschili che intendono modificare il loro apparato genitale in vista di una eventuale gravidanza (la cui fattibilità resta ancora da dimo-strare) e su donne con insufficienza uterina per l’età avanzata.
L’insegnamento della Chiesa, a partire dall’istruzione Donum vitae( 1987), non riconosce una qualità antropologica e morale positiva alla Fiv-et omologa (le donne affette da Mrkhs hanno generalmente una regolare ovogenesi che rende possibile l’utilizzo dei loro stessi gameti): le «manipolazioni [degli embrioni in vitro] sono contrarie alla dignità personale dell’essere umano [e] alla sua integrità » perché comportano un elevato rischio di danneggiamento e mortalità embrionale. Inoltre, la Fiv-et «attua la dissociazione dei gesti che sono destinati alla fecondazione umana dall’atto coniugale ».
In effetti, «il concepimento in vitro è il risultato dell’azione tecnica che presiede alla fecondazione; essa non è né di fatto ottenuta né positivamente voluta come l’espressione e il frutto di un atto specifico dell’unione coniugale ». «Non si possono certamente ignorare le legittime aspirazioni degli sposi sterili», come ha detto il Papa il 18 ottobre 2021, e tutti, in particolar modo i medici e i ricercatori, devo sentirsi vicini e attivi nel trovare soluzioni al problema della infertilità, ma senza trascurare la dimensione etica, «fondamentale per una cura che sia veramente tale, veramente integrale, veramente umana».