L’Avvento con cui si apre l'anno liturgico è più che un periodo di tempo precede e prepara il Natale. È chiave ermeneutica del tempo, da cui è scandito il divenire della vita. Da sempre il pensiero s’interroga sul significato del tempo e del suo condensarsi in storia. L’uomo non è un abitatore ignaro, ma consapevole del tempo. Il suo scorrere lo inquieta: gli pone interrogativi di provenienza, di consistenza, di destinazione. Nel tempo che passa è implicata la sua esistenza. Qual è l’esito del tempo? È esso votato al compimento o alla caducità? Interrogativo cruciale. Una concezione del tempo come puro divenire – successione pellicolare di attimi e momenti – è una visione nichilista: il fluire del tempo è una nullificazione continua. Nel momento in cui accade, il tempo cade: è passato, risucchiato nel vuoto, non c’è più. E in questo risucchio relativizza e trascina tutto e tutti. All’uomo non resta che aggrapparsi al tempo, afferrare l’attimo fuggente, per ricavarne tutto il vantaggio e il godimento possibile. L’oraziano « carpe diem » – profitta del presente che del domani non c’è certezza – è la sua filosofia. L’ha stigmatizzato con espressione prosaica ma efficace san Paolo, e ancor prima Isaia: «Mangiamo e beviamo, perché domani moriremo». Una concezione a sua volta del tempo come eterno ritorno – successione ciclica e ripetitiva di età ed eventi – è una visione deterministica, che inghiotte il soggetto e la sua libertà. Concezione rappresentata dall’aforisma di Qoèlet: « Nihil sub sole novi. Quel che è stato sarà e quel che si è fatto si rifarà». Il tempo è un ruotare ripetitivo: luogo del riciclo delle stagioni e della metempsicosi delle anime. Due concezioni del tempo senza l’Eterno: dove il tempo è appiattito sulla sua vanità. Entrambe senza futuro e senza speranza. Due concezioni spersonalizzanti, che votano l’uomo a un destino d’insignificanza e di morte (la prima) e di liquefazione in un divenire che reitera se stesso (la seconda). L’incedere liturgico del tempo è radicalmente altro. Il suo divenire è sotto l’istanza promettente dell’avvento. Parola che significa venuta, con significato non cosale ma personale. Non il di-venire di un tempo-cosa, con la transitorietà e la caducità delle grandezze di questo mondo. Ma l’av-venire – il venire-ad nos – di un tempo-persona: il Signore del tempo. Non solo perché prima del tempo e suo principio, ma perché è entrato nel tempo – si è fatto tempo egli stesso, prendendo la nostra umanità – e ha immesso in esso il destino di speranza del suo Giorno: il Giorno del Risorto. Non per nulla centro e culmine del tempo liturgico è la Pasqua, il «Terzo giorno», giorno senza tramonto, che imprime ai nostri giorni il finalismo dell’Eterno. Il compimento pasquale del primo avvento è premessa e promessa del secondo avvento di Cristo, per la «ricapitolazione» in Dio dell’umanità, del cosmo e della storia (san Paolo), e insieme del suo avvento intermedio nell’oggi della Chiesa e del cristiano: il Signore è venuto, viene e verrà – annuncia il Vangelo e con esso la liturgia. L’avvento del Signore rimuove l’anonimato, dà un incedere personale al tempo. Questo ha il significato dell’andare incontro, che l’avvento del Signore attiva. Il tempo ha valore più che cronologico: tempo-kronos, scandito dal suo trascorrere. Ha valore kairologico: tempo-kairos, scandito dall’avvento dell’Eterno nell’oggi, evento di vocazione e di grazia per l’uomo. E valore teleologico: tempo- telos , sospinto e diretto dall’avvento ultimo, alla fine dei tempi. L’uomo non è un abitatore smarrito e rassegnato del tempo. Il venire a noi del Signore, del suo Giorno, avvalora e muove come cammino il tempo. Il futuro come eternità non è solo un desiderio e un sogno. In Cristo il futuro è 'già' cominciato, l’eterno è entrato nel tempo. E il suo avvento muove come esodo verso il 'non ancora' il fluire dei giorni. L’uomo, in questa ermeneutica esodale, è un pellegrino – homo viator – in cammino verso l’inveramento e il compimento escatologico dei giorni.