Tra Wembley e Wimbledon. Comunque vada è un Paese di splendido azzurro ritrovato
Caro Albertone Sordi, altro che Fumo di Londra, lì sotto il Big Ben oggi è tutto uno sgargiante tricolore. A Wimbledon va in scena un 25enne, romano come te, un ragazzone che è già n.8 del tennis mondiale e che per la prima volta porta l’Italia in finale nel mondiale dei gesti bianchi. Non succede, ma se succede che batte il re, Novak Djokovic, allora sul prato più prestigioso del mondo potremmo cantare Erba di casa mia. Il Banfi nazionale è pronto a intonare il suo Lino di Mameli dal pomeriggio di Wimbledon fino alla notte di Wembley, finalissima di Euro 2020. Noi, nostalgici del Mundial ’82, questa notte ci piacerebbe rivivere l’esultanza del presidente Pertini nella sobrietà istituzionale del nostro elegante capo di Stato, Sergio Mattarella. Un uomo e un politico che al premier inglese Boris Johnson può dare lezioni di stile, senza nemmeno passare dal parrucchiere.
Il clima del clan azzurro di Roberto Mancini è sempre stato all’insegna del calcio amore e simpatia. Gli inglesi in campo non sono da meno, ma è sugli spalti che serpeggia un umore virale da perfida Albione. La tifoseria poco british ha fischiato l’inno danese e farà quasi sicuramente lo stesso anche con noi. Poi magari si tratta degli stessi londinesi che si sono inginocchiati per testimoniare solidarietà al Black Lives Matter. È stato comunque un Europeo all’insegna del fairplay, Luis Enrique docet. Sia nel tennis che nel calcio siamo stati bravi e fortunati. Il talento italiano, dopo qualche stagione all’inferno, con palline in mano e pallone ai piedi torna in paradiso. Se vincere a Wimbledon è sempre stato un tabù dai tempi di Pietrangeli, anche l’Europeo è un trofeo finito in bacheca una sola volta, nel lontano 1968. Era un’Italia che in campo e fuori sperava nel futuro, lo stadio da quel momento avrebbe accolto gli ardori della contestazione giovanile, degli studenti di Valle Giulia, dove ieri come oggi «brilla la luna».
Lo avevamo scritto alla vigilia di Euro 2020: questa Nazionale ha la funzione di riunire un Paese che, come il resto del mondo, ha perso la serenità e la possibilità per il suo popolo di stare insieme. Sono bastate sei notti magiche, itineranti – da Roma a Monaco arrivando fino a Londra –, inseguendo un gol, per riscoprirsi comunità e ritrovare il gusto pieno della vita, che poi è l’arte dell’incontro per tutti i fratelli d’Italia. Terrazzi imbandierati, strade esondanti di una gioia incontenibile, bagni di folla nelle piazze e nelle fontane. Scene viste già nel ’68 e poi nelle due vittorie Mondiali di Spagna 1982 e Germania 2006. È un piacevole canovaccio che si ripete. Un rito collettivo sempre uguale a se stesso. Cambiano le generazioni, ieri i sessantottini, poi gli yuppies e i paninari anni 80, e infine l’allegria – forse meno spensierata e fiduciosa di allora – degli odierni millennials. Genitori e figli uniti finalmente a cena, non più reclusi nelle loro stanze di giovani vite in Dad per colpa del Covid, per la partita di pallone. Tutti assieme appassionatamente davanti allo schermo per assistere alle imprese dei ragazzi di Mancini. Ragazzi per lo più cresciuti in oratorio, come il loro ct che al suo fianco ha voluto il compagno di squadra di una vita, Gianluca Vialli, il bomber più forte di tutto, anche della malattia.
La forza dell’amicizia è il marchio di fabbrica di una Nazionale che stasera vuole vincere anche per Leonardo Spinazzola, il fratello infortunato che sulla fascia ha danzato con la classe di un brasiliano e il cervello fine dell’italiano in gita. Sì, perché è forse la prima volta che abbiamo assistito a un esempio di come il professionismo serioso pallonaro si sia fuso con la leggerezza del piacere del gioco fine a se stesso. Hanno raccontato che Jorginho, il nostro oriundo – speriamo il nostro futuro Pallone d’oro –, quando arrivò al Verona viveva in un convento, con i suoi orari e mai più di 50 euro al giorno. L’umiltà e la semplicità francescana di questo raro pensatore con i piedi è la stessa che si ritrova in tutti i 26 della Nazionale. Non c’è stato un attimo che non sia stato pienamente condiviso. A ogni gol ci siamo abbracciati tutti insieme a questi ragazzi. Comunque vada, forse mai come questa volta possiamo dire fuori da ogni retorica che è stato un successo.
Un fine scrittore anarchico e amante del pallone come Luciano Bianciardi ha detto che il successo è solo il participio passato del verbo succedere. E allora da Wembley a Wimbledon vediamo cosa succederà assieme a Berrettini e alla Nazionale, ma facciamolo con l’orgoglio e la consapevolezza di un Paese ritrovato.