Ambiente e marketing. Compensare le emissioni di CO2: le ombre nel mercato dei crediti
Una piattaforma petrolifera in attività nel Mare del Nord. Le compagnie petrolifere sono tra le principali fruitrici del meccanismo che compensa le emissioni di anidride carbonica derivanti dalle attività industriali con progetti a impatto ambientale, dal piantumare alberi all'adottare alveari
Quante api vale un carro armato? Un anno fa se lo è chiesto, per un attimo, Niccolò Calandri. Solo un attimo, però: il tempo di realizzare che questa equazione non funziona, è diabolica. E non solo perché un’ape impollina, porta la vita, ben diversamente da un carro armato. Ma anche perché certi prodotti non possono diventare sostenibili semplicemente comprando un credito: come si dice nel gergo tecnico della sostenibilità, non possono essere compensati. Da anni, le aziende che vogliono contribuire alla causa climatica ma non intendono farlo direttamente riducendo le proprie emissioni di anidride carbonica possono acquistare crediti di carbonio. Si tratta di certificati negoziabili, ognuno equivalente a una tonnellata di CO2 non emessa o assorbita grazie alla partecipazione economica a un progetto di tutela ambientale. Un esempio? Finanziare la piantumazione di alberi. Questi crediti sono acquistati per compensare l’emissione di una tonnellata di anidride carbonica equivalente. Per cui qualsiasi azienda di qualsiasi tipo può compensare con crediti di carbonio ciò che vuole: in particolare un prodotto, un processo o un evento.
«Sviluppiamo progetti sulla biodiversità per le aziende: costruiamo delle oasi naturali». Calandri è Ceo di 3bee, azienda innovativa che usa l’intelligenza artificiale per proteggere le api. « Nelle nostre oasi viene ricreato un ambiente rigenerativo, privo di monocolture e ricco di impollinatori. È un processo complesso, che richiede tempo». Privati o aziende possono adottare alveari e contribuire alla tutela delle api. « Arrivano anche le imprese che vogliono tutto e subito, cercano la trovata di marketing del mese e poi chiudono il progetto. Da noi un anno fa è arrivata un’azienda che produce carri armati. Aveva un budget interessante e una proposta, un’idea di marketing: qualcosa del tipo “se compri tot carri armati, salviamo tot api”. Perché no? Proteggi l’habitat ma uccidi le persone... È evidente che qui c’era solo un fine speculativo: abbiamo rifiutato perché era tutto palese, sia il mezzo che il fine».
È questo il punto: confondere il mezzo con il fine. Il processo di compensazione in crediti nasce per spingere l’economia a trasformarsi, ma non è la soluzione o l’obiettivo da raggiungere: è solo un mezzo. Non si può compensare ogni azione inquinante: servirebbe invece smettere di praticare queste attività. E così si arriva al paradosso: continuare a emettere Co2 come prima e poi acquistare crediti per compensare i gas serra prodotti. Anzi, sono spesso proprio le aziende petrolifere ad organizzare progetti Nbs (Nature based solutions) che riceveranno i fondi derivanti dal mercato dei crediti. Soprattutto in progetti di piantumazione di alberi, di cui molti in Africa. Il Delta del Niger ospita uno dei più grandi ecosistemi di mangrovie del mondo, ma con l’avvento della produzione di petrolio le foreste sono andate in sofferenza. Aziende petrolifere come la Shell stanno supportando la riforestazione e gestendo progetti finanziati dai crediti di carbonio. Ma non hanno smesso di estrarre petrolio, causa del problema per cui i crediti di carbonio sono stati creati e della degradazione delle mangrovie in Niger. Uno dei paradossi del mondo delle compensazioni è che non muovendosi per un fine comune, ma solo come ammenda o donazione, si scontra con la realtà di quello che serve davvero. Ad esempio, piantare alberi: sicuramente sono indispensabili, ma ne abbiamo fatto i grandi protagonisti dei progetti di compensazione. In modo, spesso, quasi scellerato dato che le aziende più inquinanti del mondo continuano a piantare. Nel 2020 Chevron ha dichiarato di aver piantato 30mila alberi in Canada, Gazprom più di 60mila alberi in Russia. E l’emettitrice più grande al mondo, Saudi Aramco, intende riforestare la costa del Golfo Persico con 5,3 milioni di mangrovie. Ma non c’è abbastanza terra per compensare con alberi le emissioni industriali del mondo: come spiega Oxfam, se l’intero settore energetico – le cui emissioni continuano a crescere – dovesse porsi obiettivi vicini allo zero tramite la piantumazione sarebbe necessaria una regione grande quanto l’intera foresta amazzonica per compensare l’impatto ambientale del comparto. A marzo scorso Milano ha perso 12 milioni di euro in finanziamenti europei per piantare circa 280mila alberi entro il 2023. È successo perché la gara è andata deserta dato che non esistono più nell’intera Città metropolitana zone sufficientemente grandi per creare nuove foreste. Questa corsa alla piantumazione rischia di farci perdere il senso della transizione energetica: gli alberi non sono uno strumento compensativo da usare in quantità. Sono esseri viventi, come le api. « In questi anni abbiamo contribuito a un miglioramento – riprende Calandri –, oggi la mortalità dell’ape mellifera in Italia è quasi a zero, mentre si aggirava intorno al 30-40% quando abbiamo iniziato. Ora ci stiamo concentrando su altre specie di impollinatori in pericolo: bisogna lavorare sulla rigenerazione dei territori».
Eppure anche chi produce veleno per questi stessi insetti cerca di usarli come mezzo di compensazione. « In un’altra situazione ci hanno chiesto di compensare le attività di una grande azienda che produce pesticidi. Perché? Questa azienda fa pure prodotti per curare l’uomo. Anche in questo caso escluderla è stato facile (dato che i pesticidi sono la principale causa di scomparsa delle api, ndr), ma se ci avesse invece proposto un percorso insieme per abbattere i pesticidi lo avremmo intrapreso. Probabilmente non conviene: credo che il business dei pesticidi seguiti ancora a crescere. In ogni caso, alla fine quest’azienda ha avviato il suo progetto di compensazione con le api insieme a un altro operatore che, come noi, afferma di tutelarle». Molte aziende che sinceramente si approcciano al tema delle compensazioni come un mezzo per evolversi verso l’impatto zero cominciano ad avere dei dubbi. Secondo una ricerca condotta tra i componenti dei consigli di amministrazione delle principali società quotate alla Borsa di Londra, due terzi si considerano “molto preoccupati” e il 35% “abbastanza preoccupati” per il livello di trasparenza offerto da alcuni programmi di compensazione di CO2. Le principali criticità riguardano le modalità di funzionamento di questi programmi, i loro obiettivi e soprattutto i risultati effettivi. Addirittura, i tycoon intervistati temono che questi investimenti possano perfino rivelarsi controproducenti.
«Ha senso compensare qualsiasi cosa? – si chiede il Ceo di 3bee –. No, alcuni prodotti vanno solo ridotti, eliminati, evitati: mi riferisco a tutto ciò che crea un danno sociale. Si va verso questa tendenza nei prodotti verso i consumatori, grazie alle nuove generazioni. Ma credo che il produttore di carri armati e il mondo B2B ci metterà più tempo: ha un’inerzia molto grande perché le sue supply chain sono nascoste. Speriamo che questo cambiamento arrivi presto: è qui che c’è il cuore delle emissioni». Ed è qui che c’è il nocciolo del problema: l’industria pesante si muove al passo di un panzer verso la transizione energetica. «Se il mercato non ci arriva – conclude Calandri – devono essere l’Ue e il singolo Stato a fare delle regole giuste, a imporre trasparenza. Quindi il B2B deve essere regolato dall’esterno». Dalla legge, perché il mercato non ha interesse a farlo, almeno nel breve periodo.
È quello che sta succedendo con le nuove normative europee, che spingono grandi e piccole aziende a vigilare sull’impatto ambientale del proprio prodotto e del proprio ciclo produttivo. Compensare è solo un modo per prendere tempo mentre si progetta un abbattimento diretto delle proprie emissioni. Altrimenti è solo greenwashing, che confonde il fine con il mezzo. Proprio come oggi facciamo spesso con il denaro e ciò che ci è davvero utile, scambiando l’accumulo di beni come obiettivo finale. Quando invece dovrebbe essere considerato solo un mezzo per la nostra sopravvivenza.